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 2021  aprile 24 Sabato calendario

Un ritratto di Alessandro Manzoni


Basterebbe dare credito a quello che raccontava di lui Carlo Dossi, suo attento conoscitore, oltre che lontano cugino, e l’immagine che scaturirebbe di Alessandro Manzoni sarebbe quella di un simpatico dialettofono, un ironico conversatore, un ex libertino ancora focoso, con tanto di poesie licenziose giovanili al suo attivo, capace di non prendersi troppo sul serio anche una volta diventato famoso. A un ammiratore che gli declama alcuni versi de L’Adelchi, ad esempio, dopo avergli fatto i complimenti, Alessandro gli domanda a chi appartengano e, quando il tipo risponde che sono i suoi, commenta: “Ditt de lu piasen anca a mi”.
È una rappresentazione che cozza con quella tramandataci per tradizione, di un uomo perennemente di mezz’età, dallo sguardo grave e mesto, come in uno dei suoi più celebri ritratti. Il paradosso conseguente a tale fraintendimento – lo diceva sempre Dossi – è che “il rivoluzionario Manzoni lo chiamano reazionario!”.
Eppure, esattamente duecento anni fa, I Promessi Sposi cominciano a essere scritti proprio sulle ceneri di una delusione politica. È appena fallita in Piemonte la rivolta contro gli Asburgo e, dopo aver scritto di getto un’ode patriottica, che subito distrugge, Alessandro si ritira a Brusuglio, mettendo mano al suo capolavoro il 24 aprile 1821, lo stesso giorno in cui Silvio Pellico viene condannato per cospirazione a quindici anni di carcere nella fortezza dello Spielberg.
Manzoni si trova dunque in campagna, nella villa che un tempo era appartenuta a Carlo Imbonati, l’amante di sua madre, per seguire il quale lei lo aveva abbandonato ancora bambino. Alessandro stesso l’aveva ristrutturata, ne aveva progettato il parco, piantando millecinquecento alberi tra castagni, querce, faggi, magnolie e acacie, meli e ciliegi. Era stato il primo in Lombardia a coltivare i limoni. A importare aceri giapponesi e cedri dell’Himalaya. Il caffè. Addirittura il cotone.
E lì, amareggiato per l’esito dei moti, preoccupato per la sua sorte, visto che molti suoi amici erano stati arrestati e lui era tenuto d’occhio dalla polizia austriaca, Alessandro continua a fare quello che fece tutta la vita: l’agricoltore. Lo considera il suo primo mestiere. Esercitato insieme all’altro, la poesia – che rappresenta invece l’impegno civile e morale – ma con lo stesso amore per lo studio e la scienza, la stessa preparazione e competenza, dedizione e maniacalità dei dettagli.
Da buon lombardo pragmatico, oltre a gestire direttamente i suoi terreni, evitando le scelte parassitarie dell’affitto e della mezzadria, commercializza i prodotti, intuendo che il guadagno gli possa arrivare dalla terra, non dalla penna. Come gli ha insegnato suo nonno, Cesare Beccaria: per uno Stato gli utili che produce l’agricoltura sono “i più durevoli contro l’urto de’ secoli e contro le vicissitudini delle politiche combinazioni”, grazie alla “costanza della natura” e “l’incostanza degli uomini”. E, siccome Alessandro gli utili li intende non solo per sé ma collettivi, includendo anche quelli per i suoi contadini, anzi, per tutti i contadini del mondo, tenta di incrementarli, sperimentando nuove tecniche che l’Italia arretrata ignora. È quest’uomo che con umanistica sfida non si rassegna al normale andamento degli eventi, ma tenta di correggerli, è quest’uomo che desidera gli italiani “fratelli su libero suol”, che, tra una semina e la cura dei bachi da seta, si mette a scrivere I Promessi Sposi. Ma solo quando, dopo pochi mesi dall’inizio, Alessandro teme di perdere l’amata moglie Enrichetta, si getta a capofitto nella sua storia milanese del secolo XVII, per esorcizzare quanto c’è di incerto, di pericoloso e persino di terribile nella felicità.
Confidando nell’ignoranza della censura austriaca, incurante dei rimproveri di Padre Tosi che lo sprona a dedicarsi alle Osservazioni sulla morale cattolica, Manzoni in quelle pagine ci mette dentro tutto. Ci mette dentro il “governo più arbitrario combinato con l’anarchia feudale e l’anarchia popolare”, le prepotenze e le leggi che danno sempre ragione ai più forti e colpiscono i poveretti, l’impunità organizzata e la “sfrontatezza nella corruzione”. Ci mette gli abbandoni e le separazioni patite nell’infanzia, le nevrosi della maturità, due figlie morte e il presentimento di altre catastrofi. Ci mette un matrimonio che non s’ha da fare, come il suo con la calvinista Enrichetta, che i preti non avevano voluto benedire per la differenza di culto, la carestia e la peste, Dio e il male, la fede restituita e lo scetticismo. E partorisce un singolare romanzo, personalissimo eppure universale, un meraviglioso libro di guerra e di pace, un libro dei tempi di emergenza. Perfetto per questi nostri tempi inquieti.