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 2021  aprile 24 Sabato calendario

Geopolitica dei chip

C’è solo una cosa che incute timore a Taiwan più dei cacciabombardieri cinesi che volteggiano sullo spazio di difesa aereo, a Sud Ovest: la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni. Nell’isola ribelle che Pechino vorrebbe riportare all’ovile, non piove da settimane, e l’acqua serve, in abbondanza: 156mila tonnellate al giorno, per pulire le cialde che formano la base del chip.
Taiwan sforna la metà dei semiconduttori di cui c’è bisogno per far girare il mondo: auto elettriche, smartphones, prodotti per la casa, videogiochi, bitcoin, componenti strategici di sofisticati aerei militari.
Suo malgrado, è diventata l’isola dei microchip. Il decoupling targato Donald Trump sta cambiando la geopolitica, l’ordine di chiusura permanente delle fabbriche straniere in Cina ha colpito anche la produzione taiwanese di semiconduttori. L’ingegneria dei microprocessori può essere disegnata ovunque e anche la parte elettrica, ma è Taiwan che può garantire la migliore produzione.
In Asia TMSC (Taiwan Semiconductor manufacturing co.) non ha rivali nel 70% dei prodotti top del mercato. Chiusi i battenti in Cina, la produzione locale è stata spinta ai massimi per produrre l’oro dei nostri tempi, la commodity chiave per i prossimi dieci anni, quella che promette in borsa i profitti più lauti. Dal 2016 il settore ha quintuplicato il fatturato a 5 trilioni di dollari, TMSC nel primo quarto del 2021 ha guadagnato il 25 per cento.
Per settimane la diplomazia mondiale ha lavorato per convincere l’alleata Taipei a produrre meno chip per smartphone, dedicandosi a tutto il resto. Peter Altmaier ministro dell’economia tedesca ha insistito, Filip Grzegorzewski, il rappresentante dell’Ue a Taiwan, ha promesso un Forum europeo, in autunno.
Una pressione enorme sul governo di Tsai Ing-Wen – l’eretica indipendentista al secondo mandato che, insediandosi nel 2016, non citò il principio dell’unica Cina e osò poi felicitarsi al telefono con il neoeletto Donald Trump scatenando l’ira del Politburo. TMSC ha fatto gli straordinari, ma adesso la carenza di chip potrebbe aggravarsi.
Usa e Giappone, in cambio, il 16 aprile, durante la prima visita del nuovo presidente Yoshihide Suga, hanno messo in agenda Taiwan, è la prima volta dal 1952, promettendo una strategia comune di difesa dell’alleato.
L’amministrazione di Joe Biden ha ripreso la fornitura di armi a Taiwan e, dopo aver annunciato investimenti per 50 miliardi di dollari, il presidente ha invitato a cena il Ceo di TMSC, C.C. Wei. L’Europa ha appena aperto a investimenti comuni sui semiconduttori made in Taiwan.
Le tensioni commerciali e industriali si scaricheranno inevitabilmente su quelle politiche, rendendo Taiwan ancora più vulnerabile. Pechino è furibonda per la svolta di Usa e Giappone. Ma Xiaoguang, portavoce dell’ufficio degli Affari di Taiwan dello State Council parla di “situazione pericolosa”. Si profila uno scenario che non esclude contromosse muscolari.
Intanto Pechino, conscia dei propri limiti sui semiconduttori, dopo aver confermato che finanzierà solo start up valide, sta sostenendo l’autarchia delle sue aziende tecnologicamente più avanzate teorizzata dal 14esimo Piano quinquennale. Xiaomi, seguendo Huawei, si è convertita all’auto elettrica stanziando 10 miliardi dollari nei prossimi dieci anni e ha deciso di investire 231 milioni su Black Sesame, start up dei chip applicati all’intelligenza artificiale. Alibaba con Pingtouge chip division ha creato il primo AI chip, Hanguang 800, e se lo tiene tutto per sè. Idem Baidu, con il suo Kunlun II chip da due miliardi di dollari.
Tutti vogliono rendersi autonomi dalla tecnologia americana di Intel e Nvidia. Del resto Amazon e Alphabet di Google non vogliono più dipendere dalla produzione cinese. La via delle M&A, infine, è un vicolo cieco, come dimostra lo stop del governo italiano all’acquisizione del 70% dell’italiana LPE da parte di Shenzhen investment holdings.
Mancano 200mila esperti nel settore? Il rettore della Tsinghua, Qiu Yong, ha appena varato l’università dei chip. Midea, Gree, Galanz, Haier hanno compreso che campioni come Horizon, non bastano. I più disperati sono gli stranieri, presenti specie nell’automotive, primo mercato mondiale, costretti a condividere il destino cinese: prima il decoupling, poi il Covid-19, adesso lo shortage dei chip.
L’ automotive nel 2019 ha speso 43 miliardi in microchip, un’auto elettrica ne ha 3mila e, senza, è impossibile costruire macchine da 50mila dollari. Nel 2020 GM e Ford ne hanno perso 2 a causa dei semiconduttori mancanti. Nell’isola dei microchip, scrutano il cielo. In Cina, le catene di montaggio inceppate.