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 2021  aprile 24 Sabato calendario

Orsi & tori


Che strana, ma significativa coincidenza. Nella settimana del varo del Recovery plan, il presidente Mario Draghi ha voluto aggiungere immediatamente la sua voce a quella di Emmanuel Macron e di Boris Johnson contro il tentativo di varare la Super Lega del calcio. Il Recovery dovrebbe unire e far diventare più concreta e unita l’Europa senza l’Inghilterra; la condanna della Super Lega calcio ha come cancellato la Brexit. Divisi nell’economia e politica, uniti nel pallone. Ma non solo: il Recovery dovrebbe essere un piano per ricreare equità attraverso il recupero e la crescita; la Super Lega era la quintessenza della diseguaglianza.
Il pallone può essere democrazia e riunificazione dell’Europa; la politica e l’economia sono stati e sono separazione. Così una grande Europa del calcio e una Europa mutilata nella politica e nell’economia. Mentre si accende il confronto fra i due padroni del mondo.
L’America, con Joe Biden, tenta di tornare leader mondiale condiviso dall’Europa, ma soprattutto nemico acerrimo della Russia e censore della Cina per i diritti umani. Tuttavia, con scarsissimi effetti sull’economia cinese e non solo per il 18,3% di crescita del pil nel primo trimestre del 2021. A pesare è l’effetto nullo della politica anti-Cina per i diritti umani sulle aziende occidentali che operano nell’ex Celeste impero. Basta leggere le dichiarazioni di queste aziende: «Molto felici di lavorare in Cina», dice Siemens; «Fenomenale», pensa Apple; «Notevole», dice Starbucks. Ancora più pesanti i numeri: nel 2020 la Cina ha attirato 163 miliardi di dollari di nuovi investimenti di multinazionali; nessun Paese è stato così attraente. Investitori finanziari stranieri hanno impiegato in Cina oltre 900 miliardi di dollari, determinando uno stravolgimento del sistema finanziario internazionale. Ma non solo: nella ex colonia inglese di Hong Kong, dove l’azione contro chi ha predicato interessatamente non solo per l’obiettivo dei diritti umani è stato più forte e visibile, sono transitati pagamenti per oltre 11 trilioni di dollari.
La Cina rappresenta il 17% del prodotto interno lordo mondiale. Ma non è soltanto per questo che si moltiplicano gli investimenti nel Paese guidato dal presidente Xi Jinping, che dopo Mao Tse tung e il vicepresidente Deng Xiaoping, fondatore della Nuova Cina, è il terzo leader che introduce il suo pensiero nella Costituzione del Paese. Nel mercato cinese le aziende possono scoprire le innovazioni e le tendenze in quasi tutti i campi. È in Cina che di fatto si creano i prezzi delle materie prime e dei capitali. E mentre negli Usa, che si è dimenticata fino a pochi mesi fa della legge fondamentale del mercato, cioè della legge antitrust nata proprio negli Usa alla fine dell’800, si sono creati monopoli come quelli degli Ott difficili da demolire, in Cina quando qualcuno ottiene un potere crescente e pericoloso per la comunità lo Stato interviene. È il caso di Jack Ma, l’ex insegnante di inglese, che con Alibaba è caduto in disgrazia proprio per il suo crescente potere favorito dalla tecnologia. In Alibaba ci sono circa 500 miliardi di investimenti stranieri: questi il governo cinese non li ha toccati, nel rispetto delle regole dell’Ocse, dove la Cina, con lungimiranza, è stata fatta entrare nel 2001 e dove la Cina è oggi uno dei maggiori sostenitori dell’organizzazione.
Che cos’è che fa così forte e imprescindibile la Cina? In primo luogo, la tecnologia, che progredisce a ritmi insostenibili per gli altri Paesi grazie a una demografia che, dopo essere stata la palla al piede del Paese, oggi, con oltre un miliardo di schede telefoniche organizzate, ha la più forte evoluzione della scienza dei big data. Pur nel suo approccio rozzo, l’ex presidente Donald Trump aveva compreso che questo è il vantaggio competitivo della Cina nel mondo e per questo aveva iniziato il boicottaggio di Huawei, considerata strumento di spionaggio. E aveva invitato tutto il mondo occidentale a fare altrettanto. Ma Huawei ha un vantaggio competitivo enorme: è più avanzata e può offrire infrastrutture di rete e device per il 5G e anche per il 6G a prezzi nettamente più economici di altri produttori del settore. Ed è più che naturale che le aziende che ragionano con l’obiettivo del profitto vogliano usare la tecnologia più avanzata e al minor costo possibile. Per questo, in un certo senso, la battaglia di Trump è apparsa come una guerra contro i mulini a vento.
Dodici paesi, seguendo Trump, hanno abolito la tecnologia Huawei, ma nel frattempo quelli che la usano sono più che raddoppiati, da 7 a 15.
Il secondo plus irraggiungibile della Cina è l’essere il più grande mercato del mondo. Chi produce e vende ormai non può dimenticarsi di ciò. E infatti il presidente Biden non ha esitato fin dal suo insediamento a sparare a zero su Vladimir Putin. E mentre non molla sulla difesa del dissidente Aleksey Naval’nyj, perché la Russia è rilevante sul piano economico solo per il petrolio, destinato a essere meno strategico nel momento in cui si va verso risorse energetiche diverse e rinnovabili, verso la Cina ha un approccio meno plateale, nonostante le recenti condanne su quanto successo a Hong Kong.
È questo un trend che durerà? E di conseguenza, come devono comportarsi l’Europa e l’Italia nel contesto economico e politico che si sta determinando? Non vi è dubbio che per formazione, cultura, ideali, il presidente Mario Draghi sia filoamericano, come del resto prevede l’appartenenza del Paese alla Nato. Proprio per questo, occorre definire una strategia che contempli il rispetto delle alleanze, ma anche una via per permettere alle aziende italiane di essere sempre più presenti sul più grande mercato del mondo e alle aziende nazionali della tecnologia di essere in condizione di collaborare con le aziende tecnologiche cinesi e quindi chiudere il gap che in questo campo l’Italia ha anche rispetto agli altri maggiori Paesi dell’Unione europea. Una ricerca di equilibri non facile, ma indispensabile. È la stessa America che con Biden sta cercando questo equilibrio. E per questo è stato tenuto un seminario riservato fra le due parti.
Non accecati come Trump dal risentimento, gli uomini di Biden hanno ben chiaro che cosa comporterebbe per il mondo occidentale un disimpegno completo verso la Cina, una sorta di chiusura totale dei rapporti, per costringere il governo del presidente Xi Jinping a cambiare indirizzo sui diritti umani.
A Washington sanno bene che ci sarebbe un forte rialzo dei prezzi, considerato che la Cina è un po’ la fabbrica del mondo. Dalla Cina esce il 29,5% delle manifatture di tutto il mondo. Ci sono settori che verrebbero duramente colpiti dal blocco della Cina: le automobili in Germania; le banche in Gran Bretagna; la tecnologia in Usa e in Europa; il fashion e il lusso in Francia; le miniere in Australia.
Se poi l’arma fosse quella di proibire alla Cina di operare con il dollaro, non potrebbe che determinare una crisi finanziaria globale di dimensioni mai viste.
Gli embarghi poi, in particolare quegli imposti da Barack Obama alla Russia, hanno avuto il solo effetto principale di spingere la Russia nelle braccia della Cina; e se si pensasse ora di applicarli alla Cina, che è il partner commerciale di quasi 70 Paesi rispetto ai meno di 40 degli Usa, più che probabilmente molti dei 70 Paesi potrebbero schierarsi dalla parte della Cina. L’effetto potrebbe quindi essere un isolamento almeno parziale dell’Occidente.
Oltre alla forza intrinseca di essere il principale mercato del mondo, la cui chiusura potrebbe essere devastante per molti Paesi esportatori, la Cina è più avanti degli Usa e dell’Europa sulla preparazione del renminbi digitale, mentre gli Usa esitano a creare il dollaro digitale, perché il dollaro è oggi la moneta più globale e quindi la versione digitale potrebbe ridurre il primato.
Insistere troppo sui valori umani attraverso embarghi, storicamente fa irrigidire i Paesi meno aperti sui diritti dei cittadini. E in realtà non si può dimenticare che la Repubblica Popolare Cinese ha risolto il problema atroce di 1,4 miliardi di cittadini. Gli Usa hanno 300 milioni di abitanti. I maggiori Paesi europei, a sicura democrazia,
hanno al massimo 83 milioni di abitanti, la Germania. Oggi in Cina ci sono quasi un milione di aziende a capitale straniero e fuori dal Paese che fu grande impero oggi ci sono quasi 50 mila aziende cinesi. In più, la Cina lascia che centinaia di migliaia di studenti entrino nelle università occidentali e quando tornano in Cina, inevitabilmente, portano in patria un’anima più democratica.
In questo contesto, l’unico approccio sensato è quello di collaborare con la Cina. E Biden ha già avviato il cammino.
E l’Italia?
Se per gli Usa il dialogo con la Cina rientra nelle scelte di geopolitica e di strategia globale, per l’Italia, in entrata e in uscita, la Cina può essere il Paese più importante ai fini della ripresa. La piattaforma per incrementare il giro d’affari l’ha creata nei suoi sei anni come ambasciatore a Pechino Ettore Sequi, che ha organizzato visite in Cina del presidente Sergio Mattarella, di ministri e presidenti del Consiglio, e la visita in Italia del presidente Xi Jinping che ha voluto portare la moglie anche in Sicilia, dov’era stato anni prima: voleva fargli ammirare la Cappella Palatina, con vestigia di più civiltà. Un viaggio che poteva ma potrebbe ancora, appena la pandemia lo consentirà, creare flussi di straordinari di turisti cinesi nell’Isola più a Sud dell’Italia.
Da due anni il testimone di ambasciatore a Pechino è passato a Luca Ferrari, che ha un piglio e un impegno analoghi a Sequi, che nel frattempo è diventato capo di gabinetto del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. C’è quindi conoscenza e professionalità perché il governo italiano possa definire una forte strategia di sviluppo con la Cina.
Del resto, a richiamare Draghi e il suo governo alla necessità di perseguire uno sviluppo straordinario ci ha pensato il titolo di mercoledì 21 del Financial Times: «Il piano Draghi da 220 miliardi per sconfiggere la gravissima recessione».
Ma i 220 miliardi del Recovery dell’Unione non basteranno, con il debito pubblico arrivato al 168% del pil. A Draghi, e lo ha spiegato bene, non fa paura il debito di guerra, cioè quello contratto per il Covid. Quello, il presidente Draghi non cessa mai di ripeterlo, è debito di guerra e i debiti di guerra finora hanno avuto trattamenti benevoli. Ma il problema è la crescita, perché solo con la crescita aumentano le entrate dello Stato. Draghi non si stanca mai di ripetere che lo sviluppo, dopo il virus, è la vera angoscia dell’Italia, che già da molti anni prima del Covid non cresce.
Oggi il presidente Draghi è impegnato appunto sul piano Recovery o sul piano PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza), ma a brevissimo dovrà guardarsi intorno nel mondo e non potrà che volgere lo sguardo, oltre che a Ovest, dove peraltro gli spazi sono limitati, ma appunto verso Est e in primo luogo sulla Cina e poi sull’India. Ci vorrà un viaggio ufficiale appena il Covid lo consentirà. Risulta a ItaliaOggi che la Cina lo attende con grandissimo interesse, anche per il ruolo di punto di congiunzione fra Europa, Usa e Cina che potrebbe esercitare con la sua autorevolezza, con la stima mondiale di cui gode.
Il Covid e la drammatica situazione delle vaccinazioni che Draghi ha trovato finora gli hanno reso difficile allungare lo sguardo fuori dell’Italia. Ma risulta che anche cogliendo l’occasione della presidenza italiana del G20 di cui la Cina fa parte, Draghi stia elaborando iniziative importanti verso la Cina, anche sul piano della tecnologia. Per lui, proprio nei giorni scorsi, ha parlato il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani: «Con la Cina possiamo collaborare con successo. Le aziende cinesi e italiane possono cooperare proficuamente in campi come la generazione di energia rinnovabile, l’efficienza energetica, la digitalizzazione delle infrastrutture energetiche e oltre. L’economia circolare, per esempio, è un universo ancora da esplorare e l’Italia con le sue imprese innovative è molto ben posizionata...». Il ministro Cingolani è stato protagonista del forum organizzato dall’ambasciata italiana a Pechino sulla transazione energetica e sviluppo sostenibile e la collaborazione Italia-Cina. L’iniziativa conferma l’impegno della diplomazia italiana per far mettere a frutto la competenza italiana in un settore chiave per la Cina. Infatti, il presidente Xi ha fissato al 2060 la neutralità carbonica, con tecnologie nelle quali ci sono aziende italiane di primo livello come Snam, Eni, Enel e tutte le pmi che fanno da contorno.
Ma questo è solo l’inizio dell’offensiva Italia verso la Cina e Draghi presto scenderà in campo. (riproduzione riservata)