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 2021  aprile 23 Venerdì calendario

Il caso Napoleone, duecento anni dopo

Disse Stendhal: "Da qui a cinquant’anni bisognerà rifare la storia di Napoleone tutti gli anni". Esagerava? Solo un po’. Perché, a due secoli dalla morte - 5 maggio 1821 - del generale/Primo Console/Imperatore, le guerre napoleoniche non sono ancora finite. Almeno su quell’eterno campo di battaglia che è la memoria collettiva.

Nella Francia assediata dal Covid le cerimonie del Bicentenario avverranno in sordina. Non solo a causa dell’emergenza sanitaria. Per la République Bonaparte è da tempo motivo d’imbarazzo. Esempio: nel 2005, il presidente Jacques Chirac rifiutò di partecipare all’anniversario della battaglia di Austerlitz, capolavoro militare di Napoleone. Con parecchi anni d’anticipo su movimenti antirazzisti tipo Black Lives Matter, il capo dell’Eliseo già temeva come una tagliola la celebrazione dell’uomo che nel 1802 aveva ripristinato nelle colonie caraibiche la schiavitù abolita durante la Rivoluzione. I "bonapartisti" non potevano crederci: Chirac rimuove la vittoria di Austerlitz - protestarono con qualche ragione - ma ha inviato una portaerei per commemorare insieme agli inglesi la battaglia di Trafalgar, che fu una disfatta della Francia!

Sotto accusa

"Il ritorno della schiavitù, le guerre continue e il ruolo subalterno assegnato alle donne nel Codice civile: oggi sono questi i principali capi d’accusa rivolti contro Napoleone" sintetizza al telefono da Parigi lo storico Jean Tulard. Classe 1933, autore di una settantina di saggi sull’argomento, è il decano dei "napoleonologi" francesi. Riguardo alla questione coloniale precisa: "Bonaparte ristabilisce la schiavitù, ma non è un razzista. Si è formato leggendo Rousseau. Quella decisione è un gesto pragmatico, per sedare i disordini nelle piantagioni e tornare a sfruttarne le risorse. Va quindi ricollocata nel contesto dell’epoca. Epoca in cui la schiavitù era praticata nell’Impero britannico come negli Stati Uniti d’America. Senza contare che in Russia c’erano i servi della gleba e in Nordafrica i prigionieri cristiani alla catena dei musulmani berberi... Accusare Napoleone di razzismo è un po’ come rimproverargli di aver invaso la Russia a cavallo e non con l’aviazione".

Dall’esordio nella prima campagna d’Italia fino alla morte, i 25 anni dell’epopea napoleonica "sono un grande ricordo e un grande problema" dice al Venerdì Patrice Gueniffey. Allievo di François Furet, specialista della Révolution e dintorni, nel 2013 ha pubblicato il primo tomo - il secondo è in lavorazione - di una formidabile biografia di Bonaparte. "Nella sua eccezionalità" dice, "rimane un personaggio compromettente. Ma la Storia è andata così e bisogna farsene carico. D’altronde nessun Paese può rivendicare un passato totalmente positivo". Guerrafondaio? "Di sicuro Napoleone amava la guerra come un ludopatico ama il gioco d’azzardo. Quella passione apparteneva alla sfera irrazionale della sua personalità e fu anche la sua rovina. Sebbene all’occasione possano riconoscerle una qualche grandezza, in genere ai militari la guerra non piace, la considerano un’extrema ratio, preferiscono la pace. Per Bonaparte invece l’extrema ratio è la diplomazia. Ritiene che la guerra sia sempre la soluzione migliore, la più rapida, efficace. Nello scontro dà il meglio e il peggio di sé. È geniale nella tattica. Non nella strategia". In che senso? "Anche quando non attacca, ma viene aggredito, mira comunque all’annientamento del nemico. Sa bene che non si dovrebbe mai umiliare l’avversario perché ogni umiliazione fomenta una guerra successiva, però non smette di ricadere nello stesso errore. È cattivo stratega perché manca di misura, lungimiranza, non si preoccupa delle conseguenze".

N. è personaggio divisivo quant’altri mai. Ma girando l’Europa per lavoro o per diporto, mi ha sempre colpito scoprire come dalla Spagna alla Germania, dal Belgio alla Polonia all’ex Urss non esista territorio nel quale le scorribande napoleoniche non abbiano lasciato una traccia profonda e in fin de’ conti nostalgica. Non solo in forma di musei, targhe, cimeli, ma soprattutto di gente viva: collezionisti, feticisti, eruditi di provincia che ti raccontano cosa accadde quando "Lui" passò di lì. Nemmeno fosse successo ieri. Nemmeno fosse l’ultimo episodio eccitante accaduto in zona. Dopo la Francia, l’Italia è il Paese europeo più denso di memorie napoleoniche.

Una guida appena uscita da Il Mulino (Andare per l’Italia di Napoleone, di Paola Bianchi e Andrea Merlotti) le ripercorre con itinerari da Nord a Sud. Se però volete farvi un’idea dell’intricato rapporto tra N. e l’Italia suggeriamo la lettura del nuovo libro di Ernesto Ferrero, Napoleone in venti parole (Einaudi), che lo analizza nel capitolo 12.

Saccheggi ad arte

Liberatore, modernizzatore, o cinico manipolatore di patrioti, predatore d’arte e ricchezze? Dispute secolari. Ma dalle nostre parti il cliché misogallico, antifrancese, del Napoleone-sanguisuga sembra aver prevalso su quelli più benevoli. In effetti, quando nella primavera del 1796 piomba per la prima volta in Italia alla testa di 40 mila uomini, Bonaparte è depositario di un doppio mandato: liquidare gli eserciti austro-piemontesi nel Settentrione, e riempire le casse boccheggianti del Direttorio, l’oligarchia rivoluzionaria che governa a Parigi. Alla vigilia dell’invasione, il generale motivava le sue truppe così: "Soldati, voi siete nudi e malnutriti... Io vi condurrò nelle più fertili pianure della terra, province ricche, città opulente cadranno in vostro potere".

Spiega Gueniffey: "Bonaparte ha ricevuto ordine di razziare e ricattare i prosperi Stati italiani del Nord. Le spoliazioni di opere d’arte sono ammantate di un alibi ideologico: con la Rivoluzione della Liberté-Égalité-Fraternité, la Francia pensa di essere diventata un Paese-guida, l’avanguardia dell’umanità. È quindi "giusto" che le bellezze del patrimonio artistico vengano condotte a Parigi, nel nascente museo del Louvre". Aggiunge Tulard: "Il saccheggio fu sistematico, e ha notevolmente alimentato la leggenda nera antinapoleonica. Ad arricchirsi tuttavia non fu Bonaparte quanto i più spregiudicati tra i suoi marescialli. Sul piano delle risorse, le razzie avevano però una funzione di approvvigionamento militare. Come noto, la velocità delle armate napoleoniche era facilitata dal fatto che si spostavano senza il peso delle vettovaglie: si rifornivano parassitando in loco i territori conquistati, prosciugandoli".

N. era un còrso di ascendenze toscane. Si era francesizzato il cognome da Buonaparte in Bonaparte. In Italia ottenne forse le maggiori soddisfazioni della sua carriera. Eppure ci definiva popolo "molle, superstizioso, buffonesco e vile". Soffriva l’italianità genealogica come un handicap, un complesso di inferiorità da discendente di "immigrati"? - chiedo a Gueniffey. "No, il suo problema non era l’Italia, dove si sentiva a casa, ma casomai la Corsica. Ultimo fra i territori annessi alla Francia, l’isola godeva di pessima reputazione. Era considerata terra arretrata, selvaggia, violenta, controllata dai clan. Per quanto Napoleone voglia insabbiare le proprie origini, la sua politica nepotistica è pervasa di spirito clanico. Per crearsi una dinastia piazzò nei posti giusti familiari o parenti che in più di un’occasione non si dimostrarono all’altezza. Ma col suo familismo, Napoleone si fidava dei legami di sangue più che di qualsiasi amicizia".

Icona sfuggente

Era tarchiato, alto un metro e 68. Alla Biblioteca Nazionale di Parigi ne hanno catalogato 5 mila effigi. Quasi tutte diverse tra loro. Salvo forse che nell’espressione spesso accigliata, lo sguardo puntato a scrutare gli imponderabili orizzonti del destino, nelle rappresentazioni pittoriche Bonaparte non è mai uguale a se stesso. Certo, lo riconosci subito dalla feluca, la mano proverbialmente infilata nel panciotto, eppure - a riflesso delle sue ondivaghe fortune - è un’icona sempre mobile, sfuggente, mutante: snello o grassoccio, zazzeruto o semicalvo, volitivo, ieratico oppure meditabondo, crucciato, affranto. Non per niente si tramanda che, durante le sedute di posa, il suo massimo ritrattista-cortigiano Jacques-Louis David non riuscisse a farlo star fermo. Solo le immagini in movimento del cinema sarebbero state in grado di restituirne il dinamismo. "Napoleone è il personaggio storico a cui sono stati dedicati più film, oltre mille" ricorda il cinéphile Jean Tulard. "I migliori interpreti? Tra i francesi direi Pierre Mondy e Raymond Pellegrin, tra gli stranieri Marlon Brando. Da dimenticare, invece, Aldo Maccione, Eli Wallach o Charles Boyer, attore peraltro eccellente. Quanto al progettato kolossal di Kubrick su Napoleone, forse non sapremo mai chi ne sarebbe stato il protagonista".

Da cultore di libri polizieschi, Tulard rammenta anche che quel genere letterario fu tra le tante creature dell’èra napoleonica: "Il romanzo di investigazione diventerà popolare dalla seconda metà dell’Ottocento. Però gli anni di Napoleone ne rappresentano il laboratorio. Da un lato perché Bonaparte è l’inventore di una polizia moderna che comincia a indagare metodicamente sulla base di indizi, e poi perché da quando conquista il potere lui si ritrova al centro d’un’infinità di complotti, intrighi spionistici, attentati falliti". Un regime ad alta suspense.

Ma le ombre del giallo inseguiranno N. fino alla fine: l’ipotesi che a Sant’Elena sia morto avvelenato, è plausibile oppure ennesima leggenda nella leggenda? "Lo escluderei" dice Jean Tulard. "È vero: nei capelli dell’Imperatore sono state ritrovate tracce di arsenico. Però ce n’erano anche in una ciocca datata 1805. Ciò significherebbe che i presunti avvelenatori avrebbero impiegato sedici anni per raggiungere l’obiettivo. Ai tempi dei Borgia i risultati sarebbero stati più rapidi e brillanti! No, documenti e testimonianze concordano: Napoleone morì di un’ulcera allo stomaco degenerata in cancro. I residui di arsenico possono essere spiegati in tanti modi: per via esogena, Bonaparte potrebbe aver assorbito una sostanza che all’epoca era presente in farmaci, tappezzerie, prodotti da toletta...".

Perduta nell’Atlantico meridionale a 1.900 chilometri dalle coste angolane, l’isola di Sant’Elena è a tutt’oggi un scoglio infame, raggiungibile soltanto via mare dal Sudafrica dopo sei giorni di navigazione. Pochi anni fa ci hanno costruito un piccolo aeroporto che però la crudeltà dei venti rende pressoché inservibile. Non si sarebbe potuto scegliere luogo migliore per tumularci da vivo il pericolo pubblico numero uno. Si favoleggiò che con diabolici stratagemmi, scambi di cadaveri degni del Conte di Montecristo, Napoleone sarebbe riuscito a evadere dalla cattività trascorrendo la fine dei suoi giorni negli Stati Uniti come un anonimo borghese. Ma ce lo vedete voi "lo Spirito del mondo a cavallo" - secondo l’abusata formula di Hegel - ridotto a serafico umarell che si gode la pensione in una casetta con veranda? Se N. riuscì a segare le sbarre della prigionia, fu semmai con una strepitosa operazione di propaganda, cioè attraverso le testimonianze scritte degli ultimi accoliti, gli "evangelisti" che lo avevano seguito nell’estremo esilio. "Il cosiddetto Memoriale di Sant’Elena, pubblicato per la prima volta nel 1823 dal fido Emmanuel de Las Cases è un capolavoro apologetico" ricorda Tulard. "L’Imperatore è presentato come un martire, un perseguitato, vittima delle oscure forze reazionarie, delle monarchie che hanno restaurato l’Ancien Régime, calpestato le glorie militari della Francia declassandola a potenza minore. Ma la grande astuzia del Mémorial sta soprattutto nel diffondere l’immagine romantica di un Napoleone liberale, apostolo dell’unità e dell’indipendenza di popoli oppressi, Paesi frammentati quali la Polonia, la Germania o l’Italia". Un’invenzione che in Europa avrebbe fatto palpitare i cuori durante le guerre nazionali dell’Ottocento.  

Il fantasma della libertà

Colonialista, imperialista, sessista (in materia di diritti delle donne cestinò tutte le conquiste dalla Révolution): ma allora perché nell’immaginario un tipo così rimane malgrado tutto la quintessenza dell’eroe? "Il Settecento" risponde Patrice Gueniffey, "era stato un secolo ’antieroico’, improntato ai valori borghesi: le virtù private, l’armonia domestica, l’amore coniugale... Questo fino allo scoppio della Rivoluzione, di cui Bonaparte diverrà l’eroe maiuscolo, l’Alessandro Magno, il Giulio Cesare". Napoleone chiude la Rivoluzione perché la strappa dal caos autodistruttivo nel quale è precipitata, ma allo stesso tempo la riordina, la sistematizza, la esporta con le baionette fino al delirio imperiale. Perché di delirio si tratta, o no? "In lui si sviluppa un’ipertrofia della potenza, la convinzione che nulla possa resistergli. Anche per questo nelle caricature diverrà l’archetipo del matto megalomane. Bonaparte ha un concetto smisurato dell’azione. Si considera un "eroe della volontà". In ciò stride con la cultura del Novecento. Da Mussolini a Hitler a Mao, il XX secolo è pieno di personalità decisive e terribili, ma culturalmente tende a spiegare i rivolgimenti storici attribuendoli a grandi forze collettive, sovra-individuali. Per il marxismo - che pure si afferma dall’Ottocento - saranno quelle dell’economia, per lo strutturalismo quelle della società, ecc...".

Nella mentalità di N. invece "la volontà del singolo svolge ancora un ruolo preponderante. E benché oggi le glorie militari o l’eroismo guerriero non siano più dei "valori" come ai suoi tempi, Bonaparte rimane un mito. Il mito di colui che, venuto su dal nulla, ha trasformato la propria vita in un destino. Napoleone pensa che gli uomini possano spingersi oltre il cerchio della necessità. Ma se ’l’uomo è libero’ ammoniva Tocqueville, lo è pur sempre ’dentro i suoi vasti limiti’".

E con ciò "il caso N." resta irrisolto. Incompiuto come il magnifico abbozzo di David che trovate riprodotto in apertura di questo servizio.