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 2021  aprile 23 Venerdì calendario

Intervista a Matthew McConaughey

Scrive diari da quando è ragazzo. Quaderni, appunti, liste da appendere al frigo. Si definisce un egocentrico utilitarista, è molto centrato su di sé, ma di mestiere interpreta la vita degli altri. E gli piace studiarla, come ha fatto per interpretare Ron Woodroof nel film Dallas Buyers Club che gli ha fatto vincere l’Oscar come miglior attore protagonista. Storia vera di un operaio che nel Texas omofobo dei rodei si scopre malato di Aids e diventa, rocambolescamente, un campione della libertà di cura, in società con una trans. 
Il successo per Matthew McConaughey era già arrivato nel 1996 con il thriller Il momento di uccidere e soprattutto le commedie romantiche da cui ha faticato a distaccarsi. Ha detto molti no, e poi sono arrivate le proposte cui ha detto sì, da Soderbergh per Magic Mike a Cristopher Nolan per Insterstellar. Sono alcune delle luci verdi del semaforo che racconta nel suo memoir, Greenlights, un bestseller negli Usa, pubblicato in Italia da Baldini+Castoldi. Ha spremuto i suoi diari in un racconto schietto e ironico della sua umile famiglia texana e delle sue avventure, non solo cinematografiche: dallo scambio scolastico in Australia (un incubo inatteso) al Mali, passando per Messico ed Europa.
Per l’intervista si collega dalla sua casa di Austin, Texas. Dal grande giardino arriva una luce bianca che viene raccolta dai capelli chiari, spiove sugli occhiali da sole rosa fumé, con riverberi intonati agli scacchi violacei della camicia,ed esplode nel sorriso affabile. È simpatico, come nel libro, e molto diretto, come nei film. Non usa intercalari, fa pause profonde, pesa le parole: le mastica, ogni tanto le sputa in texano. Nelle risposte a volte riproduce dialoghi o riformula le domande.
In coda al libro ha pubblicato la lista di 10 cose da fare nella vita, scritto nel 1992. Aveva 23 anni, stava recitando in La vita è un sogno di Richard Linklater. Vincere un Oscar è all’ottavo posto. Al primo: diventare padre.
«Avevo appena iniziato a recitare e dopo neanche una settimana di riprese boom! Arriva la notizia sul set che mio padre è morto! La recitazione scende subito di posizione. La cosa più importante, a quel punto, era la morte di mio padre. E diventare padre, l’unica cosa che sapevo di volere da sempre».
Al secondo posto c’era “trovare la donna giusta e tenersela”. Trovare la donna non viene prima di diventare padre? 
«Sì. Ma ho fatto quel sogno, che ho scritto nel libro, l’ha letto?».
Sì, 22 auto guidate da donne con dentro quattro figli ognuna. E tutti figli suoi. Un sogno erotico automobilistico molto yankee...
«Beh... per anni non sapevo se avrei trovato la donna giusta, ma sapevo di voler diventare padre».
Cosa ricorda della nascita del suo primo figlio, Levi? 
«Lo vedo tutto fasciato, piango e gli dico “sissignore”, l’ho chiamato “signore”. Rivedevo mio padre? Sì. E sentivo di essere divenuto immortale, sarei vissuto per sempre, c’era una discendenza. Gli ho detto “sissignore, Levi”. E per la prima volta in vita mia mi sentivo un signore. Come ho scritto, un uomo non è mai così virile come dopo la nascita di un figlio. Virile, non macho».
«Quando è nata la mia seconda figlia, Vida, ho pensato “caro Matthew, questa qui è arrivata per insegnarti tante cose che manco sapevi di dover imparare”. Cose che solo una figlia può insegnarti»
Poi è nata Vida, una femmina. 
«In famiglia ero l’ultimo di tre fratelli non ho avuto sorelle o bambine per casa, e ho pensato “caro Matthew, questa qui è arrivata per insegnarti tante cose che manco sapevi di dover imparare”. Cose che solo una figlia può insegnarti».
Nel libro racconta che suo padre era manesco. Ma senza rancore né timore di un giudizio politicamente corretto su di lui.
«Non giudico mio padre, anzi applaudo al modo in cui mi ha cresciuto. A modo suo, nel modo in cui sapeva trasmettere determinati valori ai suoi figli: fisico. Ricordo il dolore dei suoi manrovesci se gli dicevo bugie? No, non è il dolore che ricordo, ma ricordo la maschera di dolore che era il suo volto mentre si chiedeva se avesse fallito come padre per aver cresciuto un ragazzo che gli aveva appena mentito per quattro volte sul fatto di aver rubato o meno una pizza. È l’angoscia nel suo sguardo da “cosa devo fare ora?” che mi ha fatto male, non la sberla! Io non uso i suoi metodi, ma insegno gli stessi valori: non dire bugie, non credere di poter fare qualsiasi cosa, accettare di avere dei problemi e non odiare».
Con suo padre le scazzottate erano il rituale di passaggio all’età adulta. Con i suoi figli?
«Fare assieme una casa sull’albero, abbiamo vari progettil. E stiamo assieme in cucina, ci sediamo a tavola, ringraziamo e ognuno presenta il piatto che ha fatto. Io il cheeseburger, mia moglie Camila il pollo alla Stroganoff, una ricetta brasiliana: pollo, panna e mais con sopra una palla di riso. Da noi c’è sempre una pentola di fagioli sul fuoco». 
Nel libro racconta d’aver conquistato Camila nel 2005 a Los Angeles preparandole un margarita. L’ultima volta che l’ha fatto?
«Eh... sei mesi fa. Ci vuole tempo per preparare un buon margarita, dodici minuti. La vera ricetta è il tempo. Si può pensare di moltiplicare per 12 le dosi degli ingredienti e prepararli tutti in una volta, ma non sarebbero buoni come se li preparassi uno per uno. Devi scegliere: farne uno bene o 12 male».
Del matrimonio con Camila scrive: “Non ho sposato la donna dei sogni, ma la migliore che potesse esistere per me sulla Terra”. 
«Con lei ho appreso e sto apprendendo una lezione d’amore: in passato pensavo che se ti metti con qualcuno avrai solo la metà di te stesso. Ma se incontri il partner giusto hai il 100% di te stesso, l’altra persona ha il 100% di sé stessa e insieme fate il 300%. Cioè 1 più 1 diventa 3. La mia vita è più avventurosa ora di quando ero single».
Sua madre per un po’ non è stata la persona giusta. La fama del figlio le ha dato alla testa. 
«Non riusciva a trattenersi con i fan e le tv, diceva: “Certo, accendete la telecamera, vi faccio vedere dove mio figlio ha perso la verginità...”. E poi se portavo a casa una con cui uscivo scattava una foto e la inviava ai giornali. Lì ho capito che dovevo proteggere la mia vita. Per 8 anni non ci siamo parlati, solo telefonate domenicali. Ma se non fosse per lei non ce l’avrei fatta».
Si riferisce al fatto che sua madre le ha fatto credere di aver vinto piccolo Mister Texas nel 1977?
«Lei aveva incorniciato la foto in cui stringo una statuetta: “Ecco il mio campione”. Due anni fa l’ho ritrovata e guardando bene ho scoperto che alla base della statuetta c’è scritto “secondo”. Le ho telefonato e lei ha detto che la famiglia del bambino vincitore era più ricca e gli aveva preso un completo costoso per la gara, dunque non vale! Mia madre è una grande storyteller, la regina della relatività. Ma senza di lei forse sarei cresciuto con la mentalità dell’eterno secondo».
Lei ha mai mentito davvero? 
«Durante le vacanze al mare in Florida promisi a una ragazza, la responsabile dei bagnini, che l’estate dopo sarei tornato per fare il bagnino. Lei: “Sei sicuro?”, e io “Sì, sul serio, verrò il 1° giugno”. C’erano tanti ragazzi e ragazze che volevano quel posto. E io? Non ci sono andato. E non l’ho avvisata. Sono passati 35 anni, ma ci penso ancora. Non ho mantenuto la parola e c’è una donna che mi porta rancore». 
L’anno dell’Oscar per Dallas Buyers Club c’era anche DiCaprio in The Wolf of Wall Street. Il rischio di arrivare secondo c’era. 
«Ho controllato la statuetta!».
Nel film di Scorsese, in un scena con DiCaprio, lei è Mark Hanna, broker tutto prostitute e cocaina. 
«Nella sceneggiatura era più breve la scena, feci una improvvisazione musicale un po’ folle, battendomi la mano sul petto; prima di un ciak, faccio così per rilassarmi e concentrarmi e Leonardo mi ha suggerito di farlo nella scena».
Nei ringraziamenti del libro cita Richard Linklater, che fu il primo a vedere il suo talento. Cosa vide?
«Per la parte di Wooderson in La vita è un sogno ero andato come a un colloquio di lavoro. Camicia stirata di fresco, pettinato bene, barba fatta. Entro: “Buongiorno signor Linklater” e lui: “Stronzetto, ma lo sai che sei qui per Wooderson?”. Ho risposto “Guarda, non sono lui, ma so chi è”. Ho chiuso le spalle dietro, ho abbassato le palpebre, mosso la mia testa in su e ho cominciato a entrare nel personaggio. Lui ha detto: “Questo tipo sa chi è il personaggio anche se non è lui”».
Di Nic Pizzolatto, autore della serie tv True detective, apprezza l’onestà. Cosa vuol dire?
«Nic può propormi qualcosa e se non sono d’accordo dico: no, grazie. E lui: capito, grazie. Se vado io da lui, lo stesso. In troppe relazioni inizi a pensare “siamo amici, anche se non voglio farlo, dirò che ci darò un’altra letta” o temporeggi con l’agenda piena... si perde tempo. Vale anche nella vita privata, non ci prendiamo in giro, non siamo schiavi dell’emotività». 
Tra i grandi amici, a Hollywood, c’è Woody Harrelson. Il ruolo che l’ha reso famoso, Tempo di uccidere, era suo, ma John Grisham, autore del libro, mise il veto perché Harrelson aveva interpretato Assassini nati, film che ispirò gli assassini di una amico di Grisham. Lei cosa ne pensa?
«Credo che l’esposizione frequente della mente di una persona giovane allo spettacolo abbia un’influenza da renderla insensibile? Sì, lo credo. Credo che Woody non avrebbe dovuto ottenere la parte per il ruolo in quel film? No. E ancora: credo che i bambini che usano videogiochi, diventino violenti fino a svalutare la vita? È un gioco! Possono portarlo nella realtà e diventare insensibili? Sì, lo credo. Vale anche per il porno che rende strano per alcune persone avere un rapporto perché la realtà che hanno visto è legata alla pornografia».
In True detective ha ritrovato Woody: siete due poliziotti. Uno cattivo e l’altro ancora più cattivo. Poi, di fronte al male che combattono, ci appaiono buoni. Cosa ricorda di quella serie?
«Woody ed io avevamo lavorato assieme tre volte, in commedie. E d’altronde quando passiamo del tempo insieme nella vita reale, tutto si fa commedia. Lui parte per una tangente, io gli vado dietro e poi ci pieghiamo dal ridere. In True Detective, non si può. Interpreto Rustin Cohle che è una vera e propria isola, non prende spunto per niente dall’energia degli altri. Una settimana prima dell’inizio della produzione Woody è venuto da me e mi ha detto: “Ehi, due cose: dobbiamo aggiungere un po’ di humour, la storia è cupa, e dobbiamo metterci un po’ di leggerezza”». 
«Io ho semplicemente annuito, guardando giù. E lui: “Questo è il problema di cui parlo, Matthew, io e te lavoriamo su un campo da tennis, dove io ti lancio la palla e tu la tiri indietro. Avanti e indietro, giochiamo a pallavolo, con le idee. Ma in True detecitve io ti tiro la palla e tu stai fermo lì, la palla rimbalza, ti passa vicino, sbatte contro la rete di fondocampo e si ferma là mentre tu sei ancora lì a fissarmi; quindi forza, tirami indietro la palla!”».
«Lui parla, io resto impassibile. Lui urla “Perché fai così?!” E io: “Credo che così sia divertente, in qualche modo”. E si è messo a ridere. Parte della leggerezza della serie è in questo... Lui dice “Dai su…!” parlando a Rustin Cohle come se fosse Marty Hart, “tu hai dei grossi problemi! Io cerco di parlarti e tu stai seduto lì a guardare fuori dalla finestra”, e questo si trasforma un po’ in una frustrazione, umanità, che produce l’aspetto di humour in quella relazione».
Lei doveva interpretare Marty Hart, poi ha ottenuto la parte di Rustin Cohle. Cosa le piace?
«Io sono credente e un mistico ottimista. Ma la filosofia mi appassiona, adoro i fatti concreti slegati dalle emozioni e il modo in cui questi ci mettono in discussione. Adoro come la scienza mette alla prova la spiritualità e la fede. Delle teorie che Rustin Cohle ha sulla vita mi piace che non vuol fare proseliti, né convincerti. Ti dice “è così, il tempo è un cerchio piatto”. Non dice “voglio che ti schieri con me”. Mentre leggevo le battute, pensavo “è fantastico”, e poi “oddio, sono felice di non essere nella sua testa”».
Tra i tanti viaggi che racconta nel libro, scrive di un giro in moto da Amsterdam a Sestri Levante, dove avete dormito in un rifugio fatto da Mussolini. Non ho trovato notizie al riguardo. 
«Ricordo una grande scogliera, vicino Sestri Levante e un ascensore nella pietra. Siamo saliti in alto nelle gallerie di Mussolini. Eravamo solo io, tre amici e un tizio che ci ha detto che era una informazione molto segreta. Abbiamo cenato e dormito lì, dice che c’era il fantasma di Mussolini. In realtà ho pensato di aver visto il fantasma di Mussolini quando ho dormito a Cinecittà, a lungo, durante le riprese de Il regno di fuoco. Ero solo nel backlot e di notte me lo giravo». 
Nel libro racconta, tra il peyote allucinogeno in Messico e l’arresto ad Austin per aver suonato il bongo nudo a tarda notte, di questo episodio: “A diciotto anni sono stato molestato da un uomo mentre ero svenuto nel retro di un furgone”. Solo due righe.
« Se davo più dettagli diventava gossip, voyeurismo, sensazione, titoloni: “Santo cielo!! Matthew è stato molestato a 18 anni”. Ne ho parlato perché sono stato una vittima? Sì! Ma questa cosa mi ha definito? No!»
«Non sto sminuendo, è successo. Vorrei non fosse successo, ma è successo! Ho deciso di dirlo. Avevo 18 anni. Mi era chiaro fosse una cosa sbagliata, quindi non ho lasciato che influenzasse la mia vita, non me ne sono andato via confuso chiedendo cosa stesse succedendo. Se fossi stato più giovane e in dubbio sulla moralità della situazione, forse mi avrebbe traumatizzato di più. Dopo però non ho iniziato delle relazioni con un senso di disorientamento. Quella chiarezza mi ha aiutato. Ha capito il senso?»
Sì, non vuole nascondere l’episodio e teme sia strumentalizzato.
«Certe persone rimangono vittime delle stesse circostanze. Io non sto giudicando, non sto dicendo “non si deve essere vittimizzati”. Sto dicendo che sono tanti gli ostacoli che ho incontrato nella mia vita e mi hanno aiutato a vedere “l’opposto”, ad apprezzare gli aspetti sani della mia vita, a impegnarmi in relazioni più sane. Questa vita è come un rodeo, amico! Ci sono persone cattive là fuori. Io stesso sono stato una brutta persona; sì, lo sono stato. Non sono sempre stato una bella persona. Ma ti alzi e continui ad andare. Chi siamo? A cosa permettiamo di definire chi siamo?».
A proposito di definizioni. Nella sua biografia, nel libro, dice che è bravo a dare i soprannomi. Mi fa qualche esempio?
«Nascono sul momento. Woody Harrelson è facile, diventa Wood; e lui risponde chiamandomi Big City. Il figlio più grande, Levi lo chiamo Ghepardo, è velocissimo. Il più piccolo Rapa perché adora le rape. Ma lo chiamo anche Mowgli, perché si arrampica sugli alberi. Anche io lo facevo, e mio padre mi chiamava Cheeta, o Uomo-scimmia!».