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 2021  aprile 22 Giovedì calendario

Intervista a David Remnick, direttore del New Yorker

David Remnick ha vinto il premio Pulitzer a trentasei anni per un magnifico libro sulla fine dell’Unione Sovietica intitolatoLenin’s Tomb. The last days of the Soviet Empire, realizzato al termine della sua esperienza di corrispondente da Mosca del Washington Post. Quattro anni dopo è stato chiamato a dirigere il New Yorker, che ha rilanciato sia in termini di autorevolezza che di copie vendute. Al prestigio di firme che appartengono al gotha intellettuale, si aggiunge infatti una diffusione di 1.300.000 copie in tutto il mondo, in gran parte abbonamenti. Colto, brillante e di chiara fede liberal, alterna l’attività di direttore con quella di autore: oltre al libro sull’Unione Sovietica, ha realizzato il best seller The Bridge: the life and rise di Barack Obama e un eccellente ritratto di Muhammad Ali intitolatoKing of the World. Si tiene relativamente alla larga dalla vita sociale newyorkese, preferendo coltivare passioni private quali suonare la chitarra, andare a pesca e seguire la boxe, sport di cui è appassionato. È l’ammirevole libertà di pensiero a consentirgli un approccio eclettico: è una delle personificazioni più affascinanti dell’intellettuale in grado di mescolare l’ highbrow e il lowbrow, la cultura alta e quella popolare. Riesce tuttavia ad avere anche un aspetto manageriale, consapevole che oggi un direttore non può prescindere dai risultati economici e dal rapporto con gli inserzionisti. «Il 75 per cento dei nostri introiti è generato dagli abbonamenti» mi risponde nella sede della rivista, «e questo ci consente una notevole libertà editoriale: gran parte del restante venticinque per cento proviene dalle inserzioni mentre quello che è generato dalle vendite in edicola è una quota minima».Quali sono i rischi deontologici rispetto alle inserzioni pubblicitarie?«È evidente che i rischi esistono, e non posso certo rispondere per gli altri: mi limito a dire che è capitato di pubblicare inserzioni di automobili su numeri nei quali abbiamo espresso pesanti critiche all’industria dell’automobile per motivi ecologici».E quali sono i rischi rispetto agli interessi dell’editore? Può esistere un giornalismo autenticamente libero?«Anche in questo caso il rischio è evidente, anche se è del tutto legittimo che un editore promuova i propri interessi. Posso parlare solo riguardo alla mia esperienza personale: in 23 anni non ho subito alcuna pressione dal mio editore, neanche quando abbiamo assunto delle posizioni dure che hanno scatenato controversie. Mi rendo conto tuttavia di trovarmi in una situazione rara ed estremamente fortunata».Crede ancora nella carta stampata?«Io credo nel lettore. Se preferisce la carta stampata benissimo, ma va perfettamente anche se preferisce il digitale. Negli ultimi anni c’è stata un’accelerazione esponenziale verso il digitale, tuttavia la carta è lungi dallo scomparire: le due cose possono convivere».Il pubblico attribuisce lo stesso peso a un articolo letto onlinerispetto ad uno stampato?«Dipende dal lettore: non credo cheGuerra e Pace letta su Kindle perda di qualità rispetto alla carta stampata, semmai è il lettore che può avere una maggiore o minore attenzione. Io appartengo a una generazione nella quale il digitale e la stampa convivono, macertamente i giovani puntano in maniera crescente sul digitale».Che impatto hanno oggi gli editoriali politici? La presidenza Trump ha dimostrato che avere contro tutte le grandi testate può essere ininfluente.«Non sono d’accordo: il ruolo della stampa nei quattro anni della presidenza Trump è stato efficace, e in alcuni momenti perfino eroico, e credo che sia stato di determinante importanza nella recente sconfitta».Ma nella prima elezione Trump ha comunicato prescindendo dai giornali.«Non ha inventato nulla, ma ha anche utilizzato abilmente gli strumunti contemporanei come i social media. I politici, di ogni colore, tendono a diffidare di tutto ciò che media tra loro e l’elettorato. Ai tempi della radio due politici divertentissimi quali Huey Long e Franklin Delano Roosevelt amavano parlare direttamente al pubblico senza interlocutori. Bill Clinton amava andare in trasmissioni come quella di Larry King, che lo metteva completamente a suo agio e gli offriva il microfono per dire quello che riteneva».Un’accusa che viene fatta al mondo liberal, di cui la rivista che dirige è un’istituzione, è quella di elitismo.«In questa accusa c’è qualcosa di vero, che deve portarci a riflettere: il mondo liberal, che è prevalentemente istruito, ha perso il contatto con la working class, e il populismo di Trump ha saputo approfittarne ottenendo risultati molto efficaci. È un elettorato estremamente diverso da quello che aveva per esempio Bob Kennedy quando si candidò nel 1968: una delle caratteristiche più significative e benaugurali di Biden è che è in grado di parlare di nuovo con quel mondo».L’avvento dei social ha trasformato chiunque in un potenziale editorialista.«Partiamo da un principio di libertà: chiunque ha diritto di esprimere la propria opinione. Detto questo, lo strumento può generare una diffusione impensabile con effetti anche pericolosi. Io non sono su Twitter perché il New Yorker mi consente di esprimermi, e questo ovviamente è un grande privilegio.Aggiungo che trovo noiosi i tweet di molti giornalisti che di fatto promuovono soltanto il proprio lavoro o rispondono con acredine alle critiche. I social media sono nello stesso tempo velenosi ma utili e affascinanti. L’acqua è buona o cattiva? Può inondare, travolgere e farti affogare ma è meravigliosa se sai immergerti. E quando non è salata puoi anche berla».Quale è stato il principale cambiamento da quando dirige il “New Yorker”?«Certamente Internet, che nei primi anni aveva un peso molto inferiore. Ora tutto ciò che è online è centrale, e siamo tutti consapevoli che è ancora in via di sviluppo: ogni giorno ci sono innovazioni tecnologiche e culturali».Quale è stato il momento più tragico della sua direzione?«Sono stati due: l’undici settembre e l’elezione di Trump».Ha venduto di più o di meno in quelle occasioni?«Di più, ma questo succede con tutti i cambiamenti epocali.Spero solo che il giornale sia stato all’altezza».Qual è stato il momento più entusiasmante?«L’elezione di Obama: un momento storico».Il “New Yorker” è celebre per le copertine: quale è la sua preferita?«Quella totalmente nera realizzata da Art Spiegelman in occasione dell’undici settembre».È rimasta celebre anche quella con la pioggia porpora quando morì Prince.«Ero in una riunione di redazione e ho mandato un sms alla responsabile Françoise Mouly, avvisandola soltanto della morte. Alla fine della riunione la copertina era già pronta: lo racconto per sottolineare che nessuna realtà come la nostra può funzionare senza una squadra efficiente, sia con la carta stampata che con il digitale».