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 2021  aprile 18 Domenica calendario

La guerra di Tolstoj, l’Ei fu di Manzoni


«Ho visto l’Imperatore, quest’anima del mondo, uscire dalla città per andare in ricognizione». Il 13 ottobre 1806 Georg Wilhelm Friedrich Hegel osserva Napoleone, di passaggio a Jena col suo esercito, e così lo descrive in una lettera: «È una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina». In seguito cambierà opinione ma in questa fase il filosofo vede in lui un’occasione storica da cui gli Stati tedeschi possano trarre una lezione di modernizzazione. D’altronde, come ha scritto Jean Tulard, autore di una delle monografie più celebri di Napoleone, nessuno ha incarnato quanto Bonaparte «il mito del salvatore».
Per questo molti scrittori, soprattutto nell’Ottocento, da Ugo Foscolo a Madame de Staël, da Alexandre Dumas a Walter Scott, da Victor Hugo (che lo definì «quel grande taglialegna dell’Europa» perché sotto la sua scure si abbatterono molti Stati) a Joseph Roth, ne sono ne stati attratti o respinti. I motivi e i giudizi sono stati spesso opposti ma la personalità del condottiero francese ha offerto molto materiale di alta qualità narrativa. Rivoluzionario, reazionario, egoista, idealista, cinico, generoso: tutti gli aggettivi sembrano calzargli. Le antitesi, d’altro canto, sono «facce di una sola unità, che non può essere risolta», come nota Matteo Palumbo nella premessa al volume «Ei fu». Vita letteraria di Napoleone da Foscolo a Gadda. Il libro, in uscita il 22 aprile da Salerno, ricostruisce l’impatto che Napoleone ha avuto sulle speranze e sulle fantasie degli scrittori italiani,in particolare sui poeti che hanno contribuito a creare il mito del Giovine Eroe. Lo stesso Napoleone fu un uomo di grande cultura, un lettore accanito, uno scrittore e un architetto di biblioteche che fece costruire in tutte le sue residenze private per contenere, in totale, circa 60 mila volumi. Lo sa bene Ernesto Ferrero, grande esperto del condottiero a cui ha dedicato N., romanzo vincitore del premio Strega 2000, nel quale racconta i giorni dell’esilio all’Elba attraverso il punto di vista del bibliotecario Martino.
Balzac, che teneva nello studio una statuina di Bonaparte dove aveva scritto «Quel che lui non è riuscito a finire con la spada, lo realizzerò io con la penna», in Una tenebrosa vicenda lo immortala in una pausa della battaglia di Jena, con la divisa e gli stivali lordi di fango e il «pallido e terribile viso da Cesare». «Era un uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare» lo definì Alessandro Manzoni, che per lui compose la celebre ode Il cinque maggio, meditazione morale sul potere e sul declino, scritta oltre due mesi dopo la morte per la lentezza delle comunicazioni dell’epoca. Il componimento, che all’inizio venne diffuso a Milano in forma manoscritta e poi stampato a Lugano per aggirare la censura austriaca, apre con quelle due sillabe secche che, come nota Palumbo, «hanno la gravità di uno squillo, «Ei fu», mentre i versi «Fu vera gloria? Ai posteri/ L’ardua sentenza» sono l’interrogativo che Manzoni ancora ci consegna.
Napoleone è stato un eroe buono per tutti i palati, eppure capace di paralizzare un regista come Charlie Chaplin che per 15 anni lavorò a un film senza riuscire mai a realizzarlo. Il suo fascino ha percorso i secoli ed è stato in grado di tramutare libri in bestseller: alla fine degli anni Novanta i volumi dello storico Max Gallo, che mescolano fatti reali e immaginazione, hanno venduto oltre un milione di copie e ispirato una fiction televisiva di grande successo, mentre la più recente Revolution Saga del britannico Simon Scarrow (pubblicata in Italia da Newton Compton), viaggia intorno ai 5 milioni.
Per tutto l’Ottocento la dimensione epica del condottiero è stata quella prevalente, basti pensare ai due maggiori che ne hanno scritto: Tolstoj e Stendhal. In Guerra e pace il russo mette Napoleone in antitesi al generale Kutuzov e dedica molte pagine alla descrizioni delle «mani grassocce», dell’«uniforme turchina», delle «gambe corte», del «viso gonfio e giallo» del condottiero, fino a quel suo vagare smarrito sul campo di battaglia di Borodino coperto di cadaveri e di feriti, e poi su una sedia pieghevole mentre tende l’orecchio al rombo del cannone senza alzare gli occhi: «La pesantezza che sentiva al capo e al petto gli ricordava che anche per lui erano possibili la sofferenza e la morte. In quel momento non avrebbe voluto né Mosca, né la vittoria, né la gloria (di che gloria aveva bisogno ancora?). La sola cosa che ora desiderasse era il riposo, la tranquillità e la libertà» scrive Tolstoj (nella traduzione di Leone Ginzburg per l’edizione Einaudi) prima di emettere il suo verdetto: «Egli non poteva sconfessare i suoi atti, esaltati da mezzo mondo, e perciò doveva rinunziare al vero, al bene e a tutto ciò che è umano».
Nel 1839 Stendhal, che in Napoleone e nella Repubblica francese aveva riposto la sua fede giovanile ed era stato al suo seguito in Italia (tra il 1817 e il 1818 scrive gli appunti che diventeranno Vita di Napoleone, nel 1836 pubblicherà invece le Memorie su Napoleone), apre La certosa di Parma con il racconto dell’ingresso di Bonaparte a Milano dopo aver «mostrato al mondo come dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avessero un successore». Lo scrittore avrà sempre con il condottiero un rapporto ambiguo fatto di adorazione e disprezzo per i suoi difetti.
Se in tutti i grandi narratori ottocenteschi l’epopea napoleonica è caratterizzata dalle grandi battaglie, nel Novecento la figura di Bonaparte si allontana dal mito per dare risalto alla dimensione umana. In I cento giorni – quelli che vanno dalla fuga dall’Elba sino alla disfatta di Waterloo e all’imbarco per Sant’Elena – Joseph Roth parla di un uomo fragile e solo, un «umile», e intreccia il suo destino con quello di Angelina, la lavandaia che lo adorò per tutta la vita. Mentre da The Napoleon Symphony di Anthony Burgess, tragicomico romanzo che riscrive la vita del condottiero sulla traccia dei quattro movimenti dell’Eroica di Beethoven (il compositore aveva originariamente dedicato a Bonaparte la sinfonia, ma strappò la dedica quando seppe che si era incoronato imperatore), Stanley Kubrick avrebbe voluto trarre un film.
Non bisogna dimenticare, come scrive Matteo Palumbo in Ei fu, che il nome di Napoleone, spogliato di riferimenti politici o di implicazioni etiche, esiste come una reliquia dell’immaginario condiviso, simboleggia il pregio e l’importanza di qualcuno. Lo racconta bene una scena di Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta dove lo scalcagnato fotografo Pasquale affida a Felice Sciosciammocca un cappotto da lasciare al banco dei pegni per rimediare qualche soldo. In previsione dell’ipotetico ricavato progetta una spesa abbondante e quando conclude l’interlocutore gli obietta: «Pasquale, ma toglimi una curiosità, qui dentro ci sta il cappotto di Napoleone Bonaparte?».