Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 21 Mercoledì calendario

Il cervello è un complottista. Intervista a Rob Brotherton che ha pubblicato Menti sospettose

Siamo tutti complottisti. Inorridiamo, quando sentiamo le teorie cospirative più bizzarre, e liquidiamo i seguaci come pazzi. Sotto sotto, però, siamo ipocriti e commettiamo lo stesso peccato, perché il nostro cervello funziona così. E non sarebbe neppure un male, perché i complotti avvengono davvero e certe volte il sospetto è prudenza. Quando si scivola nella tragedia, però, bisogna difendersi ragionando con i seguaci, senza scaricarli tutti come matti. C’è parecchio di singolare nelle tesi del professore di Psicologia al Barnard College della Columbia University Rob Brotherton, discutendo del suo libro Menti sospettose, pubblicato da Bollati Boringhieri, e del successivo Bad News.
Dunque il cervello è programmato per il complottismo?
«Non tutti crediamo che grandi lucertoloni comandino l’umanità, ma il pensiero cospirativo è un’abitudine mentale quotidiana. Spesso non lo notiamo, perché i nostri complottismi non riguardano le idee più assurde. Il meccanismo di molti pensieri però è simile».
Qual è il confine tra un livello prudente di paranoia e uno patologico?
«Se lo sapessimo, saremmo perfettamente calibrati, ma la risposta dipende da troppi fattori che non conosciamo: quanti complotti stanno davvero avvenendo, intorno a noi, nel Paese, nel sistema politico?».
C’è differenza nella quantità di complottismo a destra e a sinistra?
«No. Ha senso psicologico che, se esiste questa inclinazione, potrà essere più o meno sviluppata in alcuni individui, ma è stabile nel tempo e distribuita egualmente nella società».
Ci sono state teorie cospirative catastrofiche, come i Protocolli dei Savi di Sion. Non pensa, però, che oggi ci sia più complottismo, magari per colpa di Internet e dei social?
«In realtà le teorie cospirative non sono aumentate nel XX secolo. Piuttosto sono diminuite. È difficile misurare, ma i Protocolli di Sion erano la norma, non era strano crederci. Oggi invece ci sorprendiamo per il complottismo e lo giudichiamo male».
Lei ha scritto Menti sospettose prima di Trump. Oggi cambierebbe qualcosa?
«Poi ho scritto Bad News, estensione del tema dedicata alle fake news. Ho allargato la mia prospettiva, perché il problema non sta solo nelle teorie folli, ma in generale nella definizione dell’accuratezza e la percezione della realtà».
Durante le elezioni ero ad un comizio in Georgia di Marjorie Taylor Green, oggi deputata repubblicana seguace di QAnon. Chiesi ad una gentile signora se non la disturbasse che Marjorie accusasse Hillary di bere il sangue dei bambini per l’eterna giovinezza. Rispose che non la interessava, purché difendesse i suoi valori conservatori.
«Spesso nelle scelte politiche la fedeltà tribale prevale sulla conoscenza dei temi».
C’è differenza tra il complottismo negli Usa e in Europa?
«Gli Usa sono massicci esportatori di cultura pop e influenzano tutti. In America, però, c’è una sorta di panico del complottismo, che ha alimentato una copertura sensazionalistica da parte di media autorevoli».
Quindi, come scrive in Bad News, la colpa è nostra?
«Anche. Parlando così tanto del complottismo, pur definendolo dannoso, lo legittimate».
L’assalto al Congresso è stato vero: dovevamo ignorarlo?
«No, a maggior ragione, se ad alimentare il complottismo è il Presidente. Però c’è un confine sottile fra quanto merita di essere coperto e quando esagerare aiuta la profezia a compiersi».
Ma le fake news russe erano vere.
«Assolutamente. Ciò dimostra che a volte le cospirazioni esistono, e non è ridicolo specularci su. Poi però bisogna chiedersi quanto sono vere, chi ci crede, con quali finalità politiche. Spesso chi le alimenta non è pazzo, ma ha interessi molto razionali».
Trump ci credeva?
«Non posso commentare su una persona, ma il suo caso illustra il tipo di domande a cui vorremmo risposte, che non abbiamo».
Eppure 75 milioni di americani lo hanno votato.
«Dimostra che dobbiamo evitare le semplificazioni. Non è logico pensare che 75 milioni di americani siano matti. Non puoi spiegare tutti i comportamenti con una teoria cospirativa e, se vuoi convincere qualcuno, non giova partire definendolo pazzo».
Poi però un gruppo di questi 75 milioni ha assaltato il Congresso. Perché?
«Non esiste una sola spiegazione. Ci siamo concentrati sullo Sciamano, perché era un’immagine curiosa, ma i capi dei gruppi che hanno preparato l’attacco, tipo Proud Boys, Oath Keepers e suprematisti, non sono pazzi. Usano queste teorie per i loro obiettivi, perciò è un errore concentrarsi sul complottismo».
Come si evita l’assalto al Congresso?
«Lo Sciamano distrae dai temi più importanti. Se un Presidente dice di non credere al risultato delle elezioni, ha più impatto di una chat clandestina. Lo stesso vale per i politici che lo appoggiano e i media che lo riportano».
Dovevamo censurarlo?
«Serve più trasparenza nel meccanismo della copertura mediatica. E se riporti cose folli, devi chiarirlo».
Quale approccio consiglia con i complottisti?
«L’atteggiamento di accademia e media è stato di liquidarli come pazzi, chiedendosi cosa sia andato così storto nei loro cervelli per farli abboccare a simili follie. Io stesso ho enfatizzato che le teorie cospirative hanno conseguenze devastanti, come l’opposizione ai vaccini. Però è vero che nella società avvengono complotti e questo modo di pensare è parte della nostra cultura. Non è un problema che possiamo sradicare con un atteggiamento superficiale e offensivo». —