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 2021  aprile 21 Mercoledì calendario

Intervista a Jared Diamond (parla della crisi climatica)

Per Jared Diamond è come puntare sul rosso o sul nero alla roulette: abbiamo circa il 50 per cento delle possibilità che il pianeta cambi irrimediabilmente entro 30 anni.
Classe 1937, originario di Boston, Diamond è stato professore di fisiologia per poi diventare linguista, ornitologo, antropologo, geografo. E ha vinto il premio Pulitzer nel 1997 con il saggio “Armi, acciaio e malattie”. Difensore dell’ambiente, di civiltà che si autodistruggono ha scritto spesso mentre girava per il mondo studiando l’umanità e imparando una decina di lingue, fra le quali italiano, russo e finlandese.
Professore, se non le dispiace, inizierei dalla fine: è ancora convinto che ci sia una probabilità del 49 per cento che il mondo come lo abbiamo conosciuto finisca entro il 2050 a causa dei danni ambientali?
«Sì. Con quella battuta intendevo dire qualcosa di serio. La nostra società oggi è su una strada insostenibile: esauriremo le risorse e i danni saranno irreversibili se non cambiamo rotta. Ma le possibilità che il mondo finisca entro pochi decenni non sono del 100 per cento, potremmo ancora rimediare se scegliessimo di farlo. Non sono però nemmeno lo zero, dato che siamo condannati se non scegliamo di agire. Ecco perché parlo del 49 per cento».
Nel suo ultimo libro, “Crisi. Come rinascono le nazioni”, ne analizza sette in altrettanti Paesi diversi. Da questa crisi, dalla pandemia, quale lezione non dovremmo sprecare?
«La lezione più importante è che i problemi globali richiedono soluzioni globali. Nessun al mondo sarà al sicuro dal Covid se ci sarà ancora un Paese in cui infuria. Anche se il Covid fosse eliminato in Italia, ma non in Albania o in Libia, l’Italia si infetterebbe di nuovo. È una lezione generale: oltre al Covid, altri grandi problemi globali che richiedono soluzioni globali includono il cambiamento climatico, l’esaurimento delle risorse, la disuguaglianza e le armi nucleari».
In passato, uno degli elementi che lei ha citato come critico nella nostra società è il declino delle interazioni sociali faccia a faccia a favore di quelle digitali, dove l’imbarbarimento è molto più frequente. Ma ora quel digitale ha permesso a parte della popolazione di continuare a lavorare durante la pandemia spostandosi di meno e permettendo al pianeta di respirare. Non dovremmo mantenere qualcosa di questo nuovo equilibrio?
«Si, dovremmo mantenere qualcosa, ma buttare via il resto. Abbiamo scoperto che ci sono molte cose che possono essere fatte in modo efficiente con Zoom, senza sprecare tempo e carburante per prendere la macchina o l’aereo e partecipare ad una riunione. La parte da evitare è la perdita dell’incontro di persona perché ha reso la maggior parte di noi decisamente più infelici».
Uno dei suoi professori all’Università, nati all’inizio del Novecento, le ha raccontato che l’avvento delle auto e del motore a scoppio venne visto con speranza: niente più strade insozzate dai cavalli e meno rumore. È andata in un altro modo. Oggi si fa affidamento sulla tecnologia per risolvere la crisi climatica, ma non rischiamo di scegliere gli strumenti sbagliati proprio quando non possiamo più permetterci errori?
«Tutti gli strumenti della tecnologia sono sbagliati se ci si illude di risolvere così la crisi climatica.
L’unica soluzione sicura è consumare meno energia, specie se viene dai combustibili fossili. La tecnologia può dare un contributo, escogitando mezzi più efficienti per generare energia rinnovabile, con l’eolico, il solare, sfruttando le maree, l’idroelettrico e il nucleare. Ma mettere mano all’atmosfera ad esempio è pericoloso e dovrebbe essere vietato. Anche perché le innovazioni hanno regolarmente effetti collaterali imprevisti. Basti pensare ai Cfc, i gas refrigeranti introdotti negli anni 40 per sostituire quelli usati in precedenza che erano velenosi. I chimici che li avevano testati garantirono la loro sicurezza.
Non avevano però previsto che nell’atmosfera avrebbero impoverito lo strato protettivo di ozono».
La transizione verso un’economia più sostenibile ha dei costi che dovranno essere pagati e non tutti sono disposti a farlo. È un processo costoso, pieno di opportunità ma anche di pericoli che potrebbero portare ad un aggravamento delle disuguaglianze. E il tempo stringe.
C’è mai stata un’altra crisi simile nella storia che è stata superata brillantemente?
«Nulla di altrettanto vasto, ma ci sono state alcune crisi globali meno grandi che sono state risolte. Fra le altre l’eliminazione del vaiolo, della peste bovina, l’accordo per imporre alle petroliere il doppio scafo, quello per vietare la produzione di Cfc».
Cosa si può fare a livello personale per evitare di contribuire alla crisi climatica?
«È semplice: sostenere e votare per i politici che vogliono mettere mano alla situazione».