la Repubblica, 20 aprile 2021
Intervista ad Andrea De Sica
Andrea De Sica è nipote di Vittorio, figlio di Manuel e della produttrice Tilde Corsi. A 39 anni – idee chiare su cinema e serie tv – consegna Non mi uccidere, con Alice Pagani, secondo film da regista dopo l’esordio con I figli della notte e l’avventura seriale di Baby. In questo thriller soprannaturale l’attrice interpreta una ragazza che per amore rischia tutto, si risveglia nella tomba e da “sopramorta” scopre una realtà cruda in cui, per sopravvivere, deve imparare a sbranare il mondo.
Tratto dal romanzo omonimo di Chiara Palazzolo, il film è sulle piattaforme da domani.
L’idea nasce nel 2005.
«Avevo 23 anni, studiavo cinema e lo sceneggiatore Gianni Romoli mi fece leggere il romanzo appena uscito. Restai colpito dall’immaginario che evocava, originale nel nostro paese. Aveva uno spirito “teen” che precorreva i tempi».
Ha conosciuto Chiara Palazzolo?
«Ci siamo incontrati. Era affabile e super modesta, adorava Gianni, le piaceva la ristrutturazione che aveva dato alla sua storia per il film, si affidava a lui. Quando è mancata sono rimasto in contatto con il marito, che ci sostiene. Sono felice che ora riesca il libro. Dieci anni fa ho girato un corto, da una delle sceneggiature che Gianni aveva scritto all’epoca, grazie al quale i produttori mi hanno fatto fare I figli della notte, un film con liceali diversi dagli spensierati protagonisti di storie scolastiche, tutti cotte e scherzi. Era legato alla mia storia personale, i miei cugini sono stati in collegio, e non somigliava a nulla visto prima. Cercavo qualcosa di alieno, forse perché vengo da una famiglia di cinema molto identificabile. Proposi anche una serie sugli adolescenti che nessuno volle. Poi ne sono uscite molte. Il creatore di Elite mi ha detto di aver visto e tenuto presente I figli della notte».
Ha scelto subito Alice Pagani?
«Ne abbiamo parlato in una pausa dal set di Baby. Lei, che ama i fumetti e i cartoni giapponesi, è impazzita. È la mia musa, la mia sorella minore.
Insieme ci siamo inventati un’estetica e un modo di fare i personaggi. Ha fatto un gran lavoro sulla voce e sul corpo, qui è diversa da Baby. Si è allenata con corsi di lotta e scuola di apnea per la scena sott’acqua, girata di mattina in un lago isolato dell’Alto Adige. Un film d’azione è come un musical, c’è una coreografia tra corpi e macchina da presa che non deve sembrare falsa».
Rocco Fasano somiglia al Pattinson di Twilight.
«In realtà l’ho scelto per quel suo aspetto un po’ alieno, che era anche descritto nel libro. Poi lo associano a Pattinson ma nel film si vedrà che la storia prende un’altra strada.
Considero un manifesto estetico aver messo insieme la Warner e la Vivo film, produzione da festival.
Cerco l’autorialità anticonformista ma anche l’intrattenimento».
Ci sono legami con la tradizione di genere italiana.
«Romoli era un tramite credibile con la storia dell’horror italiano del passato, ha lavorato con Dario Argento e Michele Soavi. Dellamorte Dellamore, che negli anni 90 fu un caso unico, venne fatto grazie a me: alle elementari portai il libro a scuola, le maestre me lo sequestrarono come un libro pornografico e chiamarono mia madre. Lei voleva fare la produttrice, lo lesse e nacque il film in cui compaio come zombi. Le musiche le fece mio padre, di questo le ho fatte io. Ho sempre avuto passione per il genere, Mario Bava, il rivoluzionario Argento. È stato bello e creativo l’incontro di Romoli con i ventenni del collettivo Grams, quelli di Baby».
L’esperienza di “Baby” cosa le ha insegnato?
«Mi ha dato sicurezza. Nessuno voleva maneggiare una materia così pericolosa. All’inizio ci hanno segato le gambe, poi siamo stati rivalutati.
Abbiamo lavorato in velocità, migliaia di provini, non ci dormivo la notte. Mi sono sentito sparato in un razzo, con i bulloni che tremavano. Abbiamo raggiunto una fascia di giovani attraverso una realtà che conoscono. Stavolta con i Sopramorti di Non mi uccidere racconto i ragazzini sotto casa, quelli che non identifichi bene. Gli adolescenti in questo momento si sentono soli, scollati dalla realtà.
Spero che il film abbia una carica catartica, che li liberi accumulando il loro malessere. Non sono mostri e non sono soli, siamo come loro».
Il rapporto con il suo cognome, in Italia e all’estero?
«Sono grato a mia madre e mio padre, mi hanno insegnato tanto. Mi manca papà, avrei voluto vederlo leggere il logo Warner sul mio film, lui e Gianni mi hanno cresciuto a pane e horror. È stato tosto far parte della famiglia, al Centro sperimentale avevo un’ansia bestiale. Anche perché non si tratta solo di mia madre e mio padre, ma anche di mio zio e mio cugino. Ci sono tutti che parlano, reinventano anche la storia dei De Sica a uso e consumo di qualunque familiare che ne voglia parlare. All’estero conta solo quel che vali, anche se stimano tuo nonno. Netflix mi ha scelto per Baby dopo aver visto I figli della notte, senza potenzialità commerciali. Gli anglosassoni celebrano i loro autori, da noi i film di nonno sono gratis su YouTube.
Papà li restaurava, vorrei proseguire io».
Suo cugino Brando?
«È un fratello minore. A tredici anni giravamo film e li montavamo in macchina, ricordo un mio tremendo trans omicida… Brando è stato uno dei primi a cui ho fatto vedere Non mi uccidere. Lo sprono a debuttare con un film suo. Anche se è un momento difficile, ha il talento giusto».