la Repubblica, 19 aprile 2021
Il calcio come show rischia di cancellare il merito sul campo
Stavolta i tamburi di guerra che risuonano negli attici del calcio europeo non sembrano il solito modo per spostare un po’ più avanti il confine tra gli interessi delle grandi società e i doveri delle istituzioni regolatrici. Va così da trent’anni: sotto la spinta dei top club il format delle coppe viene ridiscusso ogni tre stagioni, le partite aumentano e la platea dei Paesi ammessi si restringe. Non saremo così ipocriti da dire che si stava meglio quando si stava peggio: così com’è congegnata adesso, con 32 squadre fra le quali quattro iscritte per ciascuno dei quattro campionati più importanti, la Champions League è un torneo magnifico, e nella sua ombra l’Europa League è cresciuta fino ad aggiungere altre serate divertenti al menu settimanale. Ci sono margini di miglioramento ulteriore?
Probabilmente sì. Ma non nella direzione sposata da dodici società fra le quali Juventus, Inter e Milan.
La Superlega chiusa, riservata a 15 club fondatori fissi e altri cinque cooptati di volta in volta, cancella la qualificazione sul campo – e dunque il fondamentale concetto di merito – come requisito di partecipazione per tutti. Un vulnus inaccettabile.
Considerata la quantità di denaro fiabesca che è stata promessa agli scissionisti, sotto forma di bonus all’ingresso e poi di premi annuali, la piramide del calcio mondiale, già oggi molto ripida, diventerebbe una parete verticale senza appigli: niente più Atalanta, per dire dell’esempio più vicino (due qualificazioni consecutive alla fase a eliminazione diretta della Champions), ma nemmeno Roma, Lazio, Napoli. Oppure Ajax, Porto, Marsiglia, Psv, Benfica: tutti club che la coppa con le grandi orecchie l’hanno vinta, alcuni più volte. Non solo. I club in fuga giocherebbero comunque i campionati nazionali, ma se già i denari della semplice Champions hanno favorito le lunghe dominazioni (Juve, Bayern, Psg), quale competizione potrebbe mai esserci fra chi si porta a casa 300 milioni all’anno e chi 30? Che poi l’aumento dei ricavi, esponenziale da trent’anni a questa parte, ha sempre prodotto lo stesso effetto: l’arricchimento dei giocatori e, negli ultimi anni e in misura insensata, dei loro agenti, in parallelo alla crescita dei debiti dei club. Il sospetto è che succeda ancora, se il progetto andrà in porto: gli incassi delle venti società raddoppieranno, ma i Messi e i Ronaldo del prossimo decennio guadagneranno tre volte tanto.
In tempi di crisi – il Covid è stato una bomba sulle macerie – occorrerebbe piuttosto razionalizzare i costi, introdurre qualche formula di salary cap, trasformare il Fair play finanziario (peraltro in fase di liquidazione) in un obbligo a redistribuire fra gli altri partecipanti il denaro speso oltre i limiti concordati (luxury tax).
Questa sarebbe una sensata applicazione di alcune regole dello sport americano, non una secessione promossa ovviamente da Real Madrid e Barcellona, i cui deficit – specie quello catalano – hanno assunto dimensioni abnormi.
Finché il torneo si chiamava Coppa dei Campioni, chi arrivava fino in fondo giocava 9 partite e la squ adra battuta al primo turno si fermava a 2. I due numeri sono diventati nel tempo 13 e 6, e concordiamo con i grandi club che un ulteriore riequilibrio con le leghe nazionali sia nelle cose: se tutti i campionati scendessero da 20 a 18 partecipanti, come la Bundesliga, il loro livello tecnico ne guadagnerebbe (molte partite di Serie A sono onestamente inguardabili) e si libererebbero alcune date per una Champions allargata.
Il progetto che l’Uefa illustrerà oggi – e naturalmente non è un caso che la Superlega esca allo scoperto nelle stesse ore – prevede appunto 4 gare in più per 36 formazioni. L’Eca, l’associazione che riunisce tutti i club, è stata il motore di quest’ultima riforma: per Andrea Agnelli, che la presiedeva e che ha condotto la trattativa, non era più possibilegiustificare l’adesione parallela a un progetto eversivo. È anche un discorso di rapporti personali: il suo ormai ex vicepresidente, Edwin Van der Sar, rappresenta l’Ajax, un club non invitato malgrado abbia in bacheca la bellezza di quattro Champions. Come gli avrebbe potuto dire “tu sei fuori”?
Dietro al progetto Superlega c’è un player finanziario di primaria importanza, la banca americana JP Morgan, e alcuni degli studi legali più potenti del mondo: non sarà la generale contrarietà popolare a farli desistere. Uefa e Fifa hanno reagito alle indiscrezioni con estrema durezza, ventilando squalifiche ed esclusioni per i club e i loro giocatori. Difficile dire adesso se suoni più minacciosa per Messi l’esclusione dal suo ultimo Mondiale, o per il Mondiale la prospettiva che Messi non venga a tentare l’estremo assalto. Sono entrambe visioni così negative da suggerire l’inevitabilità di un accordo, ma il braccio di ferro in corso ne rende complicati i contorni. Il comandamento di base, però, resta allargare e non restringere: allargare la Champions ad altri campioni nazionali, e allargare le coppe a un maggior numero di squadre per Paese. Le partite perdute sul teatro interno potrebbero tornare su scala internazionale aumentando i gironi di Europa League e del nuovo torneo in arrivo, la Conference League, fino a comprendere dieci e non più sette squadre italiane, facilitando il recupero europeo di piazze come Firenze, Genova o Bologna. Basterebbe qualificare alla fase a eliminazione diretta soltanto la prima di ogni girone.
In cambio, ai grandi club terrorizzati di mancare un anno la Champions si potrebbero garantire due wild card come nel tennis, legate a un ranking Uefa “storico” e non replicabili se non a distanza di qualche anno. Un ramoscello d’ulivo mentre si stanno caricando i cannoni.