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 2021  aprile 18 Domenica calendario

Ritratto al veleno di Franco Bernabè

Con un taccuino e una matita sempre in tasca e con la sua aria perennemente innevata dall’ombra, come certi scorci montuosi del suo Sud Tirolo, Franco Bernabè scivola da mezzo secolo tra le cime più aguzze (e taglienti) del capitalismo italiano. Ha visto staccarsi dall’alto le valanghe societarie dell’Eni e della Telecom, forzieri dell’energia e delle telecomunicazioni, dove si fabbrica il prodotto interno lordo della nazione e quello un po’ più riservato delle grandi famiglie cannibali che se lo cucinano con le oligarchie della politica per poi spartirselo a cena a colpi di stock option e di tangenti.
Ne è uscito sempre indenne. Con i suoi appunti riservati e le liquidazioni favolose. La fedina penale immacolata. Pochi amici. Molti nemici. Molta ammirazione per la sua prudenza, per il suo enigmatico carattere. E abbastanza onore da essere ripescato oggi dal suo vecchio compagno di banco dell’associazione sovranazionale Bilderberg, Mario Draghi, che intende affidargli una borsa piena di antibiotici per provare a guarire l’Ilva – e sperabilmente i polmoni, gli umori e il destino di Taranto – dai demoni dell’acciaio che da metà secolo scorso producono vita e morte, lavoro e malanni. Che è poi il conflitto vetero-industriale tra la creazione di ricchezza e la distruzione dell’ambiente, che permane anche in questi galoppanti tempi dell’intelligenza artificiale, chiamata a rimediare alle lentezze della stupidità umana.
Bernabè, indicato prossimo presidente del conglomerato, se la dovrà vedere con questi intelligenti burloni di ArcelorMittal che considerano Sabrina Ferilli una temibile nemica del loro fatturato, e l’operaio che le ha mandato un like per una fiction sull’inquinamento ambientale un agente così tanto ostile alla crescita felice da essere licenziato su due piedi. Ma immaginiamo che anche stavolta, tra i molti forni delle lavorazioni a caldo, la proverbiale freddezza di Bernabè troverà il bandolo dei conti e del senno per rimediare i danni, essendo alle viste un finanziamento di 400 milioni alle acciaierie dalle casse di Invitalia, per contenere il collasso delle vendite di acciaio nel mondo, crollate del 70 per cento, e quello della città, sommersa dal terzo mare dell’inquinamento.
Molta strada si è lasciato alle spalle Franco Bernabè, nato a Vipiteno nell’anno 1948, padre ferroviere, infanzia a Innsbruck, scuole a Torino, laurea in Scienze Politiche, perfezionamento in America. Mai appariscente per carattere, compare sempre nel posto e nel momento giusto. Prima alla fondazione Einaudi, dove impara la creatività della ricerca. Poi in Fiat, a scuola di disciplina e di obbedienza. Ma la svolta è quando entra nella pattuglia di Franco Reviglio, multiplo ministro liberal socialista, che se lo porta per la prima volta in Eni, anno 1983, insieme con gli altri Reviglio Boys, Domenico Siniscalco, Giulio Tremonti e Alberto Meomartini. “Tutti e tre dediti più a estrarre fidanzate che petrolio, vista l’età – secondo la testimonianza di un manager dei tempi d’oro –. Tranne Bernabè, già allora prudente, scostante e specialmente monogamo: conobbe Grazia e la sposò per sempre”.
Nel celebre 1992, mentre la lira e i partiti vanno in malora, il presidente del Consiglio Giuliano Amato trasforma l’Eni, da carrozzone di Stato accerchiato e munto dai partiti, in società per azioni, e affida le chiavi al meno emotivo della pattuglia. Il più riservato. Il più astuto. E con le spalle ben coperte dalle sue relazioni internazionali, dalla Trilateral all’Ocse, dall’Aspen ai think tank della galassia atlantica. Una attitudine verso i mondi segreti delle relazioni e delle informazioni riservate che lo mette in luce agli occhi di Francesco Cossiga, quando da presidente della Repubblica, anno 1992, varerà il celebre comitato ristretto “per la riforma dei servizi segreti” per arruolarlo insieme con Paolo Savona, il consigliere militare Carlo Jean, l’ex comandante generale dei carabinieri Roberto Jucci.
In cima alla piramide Eni, l’invisibile Bernabè la trasforma per sempre. Pressato dalle inchieste di Mani Pulite, sfiorato dai suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, consegna in una notte tutte le carte ai magistrati. In 60 giorni taglia 73 società, 15 mila dipendenti, e sostituisce tutti i consigli di amministrazione: 250 manager cancellati, altrettanti nominati. Una giostra che manda nel panico i partiti, sedimenta eterni rancori, ma intanto mostra le sue competenze nell’arte della guerra apprese da Sun Tzu: “Conosci il prossimo, conosci te stesso, trionfa senza pericolo. Conosci il contesto e il suo funzionamento: trionfa completamente”.
Ci proverà altre due volte maneggiando Telecom e uscendone sempre in tempo. La prima volta, anno 1999, sconfitto dall’astuto D’Alema, che da Palazzo Chigi benedice la scalata a debito del celebre ragioniere di Mantova Roberto Colaninno e dell’altro capitano coraggioso Tronchetti Provera, che svuoteranno gli armadi (e i palazzi) aziendali meglio che durante le pulizie pasquali, lasciandosi alle spalle 40 miliardi di debito a fronte di un patrimonio di 27. La seconda volta battuto dagli spagnoli di Telefónica, che si alleano con Mediobanca, Generali e Intesa San Paolo per sfilargli il progetto e la poltrona. Bernabè saluta e se ne va fuori dal campo, siamo nell’ottobre 2013, ma sempre con tutti gli onori e le buonuscite adeguate, 7,5 milioni la prima volta, 6,6 la seconda.
Spiccioli che gli servono per riempire il suo tempo libero, inventarsi fondi di investimento, creare aziende in Europa, frequentare la Cina, dove siede tra gli amministratori del colosso PetroChina, assecondare, con la moglie titolare di una galleria in Trastevere la passione per l’arte: per 10 anni presidente del museo Mart di Rovereto, una volta in cima alla Biennale di Venezia, un’altra alla Quadriennale di Roma. “Con l’impegno nella cultura voglio ridare al Paese quello che mi ha dato”, ha scritto nella sua recente autobiografia A conti fatti. Che risulta timidissima anche quella, proprio in linea con il carattere dell’uomo, rispetto ai taccuini e alle matite accumulate negli anni. Un giacimento buono per il prossimo dossier Ilva, buonuscita compresa.