il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2021
Lunga intervista a Carlotta Proietti
“Cocò, Chanel e Chery sono fantastiche. E stanno bene, grazie”. Mangiano? “Sì, e trasmettono una sensazione di pace”.
Cocò, Chanel e Chery sono tre galline.
Tre galline nel senso descrittivo del termine, non come offesa generica, e sono un regalo di Sagitta Proietti a suo marito Gigi in occasione del lockdown: “Papà le andava a trovare e aveva l’ovetto fresco: per lui un vero privilegio. Un regalo”.
Carlotta Proietti è la minore delle figlie, la sorella è Susanna. Lei per anni ha seguito il padre sul palco (“Lì il privilegio era il mio. Quanto ho imparato solo a guardarlo”), ed è lei ad affrontare e scalare le emozioni per raccontare il libro postumo di suo padre, ’Ndo cojo cojo. Sonetti e sberleffi fuori da ogni regola. Un gioiello da leggere con gli occhi socchiusi, per quanto possibile, perché davanti a ogni ricordo, battuta, poesia o rima, si palesa Gigi Proietti. La sua voce. I suoi tempi comici. La sua ironia. La sua capacità di starti di fronte alla pari, come un amico che al bar ti racconta una storia mentre gira lo zucchero nella tazzina del caffè.
Come nasce il libro?
Dalle bozze di un romanzo, ’Ndo cojo cojo, che lui aveva iniziato un po’ per gioco; poi, dopo la sua morte, in casa è scattata una sorta di caccia al tesoro per trovare i suoi foglietti iniziati e abbandonati, con sopra poesie o disegni; papà scriveva e disegnava ovunque.
Carta, penna e via…
Mia madre si imbestialiva perché lei comprava in continuazione quaderni di ogni misura, ma lui niente: come un bambino scriveva dappertutto; quando mamma nel suo studio, e nel caos più estremo, scovava delle pepite di papà, subito ci chiamava: “Non potete capire cosa ho trovato”.
Cosa disegnava?
Caricature, anche di amici.
E di voi figlie?
(Ride) No, purtroppo. Magari le ha fatte sparire.
Nel libro definisce i suoi scritti delle “stronzate”.
È sempre stato un uomo estremamente dubbioso, o comunque si è posto continue domande rispetto al proprio lavoro; ricordo quando aveva la serata all’Auditorium di Roma, con il teatro strapieno, e lui in camerino ci guardava e domandava: “Verrà qualcuno?”.
Semi-scherzoso…
Forse era una forma di difesa e di scaramanzia, di sana incertezza, il voler porre sempre dei dubbi come forma di rispetto per il pubblico e per il palco; quando scriveva qualcosa, magari un sonetto o un capitolo del libro, poi chiamava una di noi tre, lo leggeva, e di fronte ai complimenti rispondeva sempre con un “mah” sospirato.
Lino Guanciale racconta: “Grazie a Proietti ho capito che non si deve mai dare del ‘tu’ al palco”.
Per papà era un punto imprescindibile; (ci pensa) come famiglia abbiamo sempre mantenuto un rapporto bellissimo con il mare, con lui appassionato di vela nonostante non fosse un velista; l’approccio alle onde era lo stesso di quello riservato al teatro: nessuna spavalderia, ma il giusto rispetto.
Suo padre nel 2016 è venuto alla festa del Fatto alla Versiliana. Il giorno dello spettacolo stava malissimo con la schiena, quasi non camminava, poi in scena si è trasformato nel Proietti di sempre.
È accaduto tantissime volte, ed è la forza del palcoscenico: lì sopra passa ogni dolore, meglio di qualunque medicina; e poi lui era tutt’uno con il suo lavoro, non poteva farne a meno: anche a Montecatini, quando abbiamo registrato le puntate poi andate in onda su Rai1, aveva la febbre alta, eppure ha concluso lo show.
Lei si preoccupava?
Sempre! Ma paradossalmente non temevo mai un possibile problema in scena: ero certa che la sua bravura avrebbe risolto qualunque situazione.
Con Gassman è stato l’ultimo maestro ad aver creato una scuola al di fuori delle Accademie ufficiali.
Sì, per anni è circolata una sorta di leggenda, con attori che ci scrivevano o ci chiamavano per iscriversi alla “scuola di Proietti”. E noi: “Veramente è stata chiusa tanti anni fa”; (ci pensa) lui aveva il pallino di riaprirla, negli ultimi anni ne abbiamo parlato in diverse occasioni.
Proietti ha lasciato un’infinità di “semi”. Quanti ne riconosce?
Tanti, tantissimi, e scorgo quasi sempre influenze positive; il bello è che ognuno di loro ha preso la sua strada con grande autonomia ma con le giuste influenze; (cambia tono) papà ha trasmesso l’amore totale per questo lavoro, un amore che io definisco “malattia”.
Lei è “malata”?
Sì, a un certo punto sono stata contagiata.
Ha resistito a lungo?
Il mio è stato un percorso anomalo: sono partita dalla musica e, in tempi non sospetti, papà mi diceva: “Secondo me tu puoi recita’”.
E invece?
Cantavo nei locali e nei teatri, fino a quando mi sono resa conto che per stare su un palcoscenico dovevo imparare qualcosina in più, così mi sono iscritta a una scuola e mi sono ammalata.
E quando ha svelato la malattia a suo padre?
Al momento dell’iscrizione ha mantenuto un atteggiamento vago, poi ho capito quanto era felice.
Le persone che nella vita ha incontrato, come si sono rapportate al suo cognome?
Mi ha sempre divertito l’espressione del viso quando capiscono che sono la figlia di Gigi Proietti.
Cioè?
Sbarrano gli occhi accompagnati da una sorta di “ma come!”.
Spesso i “figli di” definiscono il genitore famoso come un po’ di tutti, non solo loro.
Rispetto al concetto di padre non è andata così: da piccola mi rendevo un po’ conto di avere una famiglia fuori dall’ordinario, ma papà con noi era normalissimo, non caricava la situazione, non aveva atteggiamenti da vip, non frequentava il jet-set. Per me girarci insieme era motivo di orgoglio.
Non era gelosa.
No, felice; (sorride) mantenevo intatto lo stereotipo descritto dagli psicologi nel rapporto tra figlia e padre. Lo vivevo come una divinità.
E il 2 novembre…
Lì ho avvertito quel concetto di condivisione e l’ho scritto in un post sui social; in quei giorni è arrivata un’onda di affetto pazzesca, qualcosa di incredibile.
Non se lo aspettava?
Pensavo a qualcosa di molto grande, ma nei fatti siamo andati oltre ogni possibile attesa; tante persone mi hanno scritto dei messaggi del tipo: “Sì, lo so, per te era un padre, ma per me era un fratello, era uno zio, era un nonno”. E allora a un certo punto ci siamo dette: hanno ragione loro, tutto questo è figlio di quello che ha seminato; (cambia tono) lui ha lavorato per il pubblico.
Il pubblico maggiore possibile.
Il suo migliore amico e sassofonista di una vita, Lello Arzillli, ripeteva: “Anvedi questo: acchiappa tutti, comunisti, fascisti, laziali, romanisti”. Ed era vero; (ritorna a prima) io e Susanna abbiamo vissuto papà in maniera diversa: lei è sempre stata più timida, non amava tutta questa attenzione, mentre io non vedevo l’ora di andare a teatro con loro.
Suo padre era presente.
Mi reputo molto fortunata: non ho il ricordo di un genitore assente, poi sicuramente non era un papà comune, c’erano anomalie.
Tipo?
La mattina, da sempre, c’era mamma che portava il dito alla bocca e accompagnava il movimento con un prolungato “Shhhhh. Silenzio, papà dorme”. E allora noi ci muovevamo pianissimo, ma era normale: andava a teatro e finiva tardi; (abbassa la voce) per merito loro, in particolare di mia mamma, la quotidianità è stata vissuta in maniera serena.
Era timido?
Non era un caciarone, era abbastanza riservato, ma non timido.
Vi raccontava la sua vita?
Era un “aneddotaro”; (sorride) le storie che amavo di più erano quelle sul rapporto con la sorella: nel suo essere dubbioso, era convinto che da ragazzini, insieme alle amichette, sparlassero di lui. Non era vero.
Quasi tutti gli artisti a un certo punto della vita toccano la depressione.
Fortunatamente non papà; al massimo poteva affrontare una sorta di down alla fine delle repliche di uno spettacolo, quando si apre un periodo di vuoto, ma era più un calo di adrenalina.
Poi c’eravate voi tre.
(Ride) Che gli stavamo addosso e pure qui il merito è di mia madre: è stata lei a tenere unita la famiglia, anche con diktat che oggi capisco.
Esempio.
A pranzo e cena sempre insieme, senza cellulari, televisione spenta e obbligati a parlare; (silenzio) e poi lo ha perennemente sostenuto, da subito. Racconta che appena lo ha conosciuto ha capito che era il più grande attore di teatro. Del mondo; (sorride) e gli amici la prendevano in giro.
Sua madre lo guardava sempre da innamorata.
Assolutamente, come il primo giorno. Ed è bellissimo.
La Roma calcio.
(Immediata) Non si discute, si ama.
Non perdeva un match.
Alcune volte si è messo d’accordo con i tecnici per accorciare le prove: doveva vedere la partita.
“Quando provo sono una specie di maniaco: viene fuori tutta la mia precisione”.
Ha sempre avuto questa fissazione per la maniacalità: era attento, preciso, esigente, non severo, ma serissimo, ed è una caratteristica che ogni attore dovrebbe possedere.
Quanto ha imparato con lui sul palco?
Tanto, tanto, tanto. Perennemente: dopo anni mi sono stupita di scoprire lati nuovi, o di assorbire senza saperlo concetti impressi negli anni precedenti. Lui aveva una maestria che sembrava quasi naturale: quella di essere se stesso, e ho capito che in questo lavoro è l’impresa più ardua.
Nel libro ci sono sonetti dedicati ad Alberto Sordi e Gigi Magni.
Con Sordi c’era più un’ammirazione da lontano, mentre con Magni un sodalizio: erano amici, ridevano tanto insieme, si raccontavano barzellette e da quel rapporto sono nati lavori meravigliosi; (ci pensa) aggiungo il sonetto per Nicola Piovani: sono atti d’amore.
Lo sogna?
Sì, in tanti modi diversi.
Sul palco?
Per il momento no; (cambia tono) di questo magari parleremo un’altra volta, tra qualche tempo.
Chi era suo padre?
Un uomo di teatro.