Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2021
Il farfallone Mozart visto dai contemporanei
Indovinello: «Mi si può avere, senza vedermi. Mi si può portare, senza sentirmi. Mi si può dare, senza avermi». È uno dei tanti, che Mozart amava inventare, sconfinando immancabilmente nel licenzioso o nel beffardo. Questo lo conosciamo, perché venne pubblicato su un giornale del tempo, l’«Oberdeutsche Staatszeitung» del 23 marzo 1786, all’interno del resoconto di un ballo in maschera per il carnevale, a Vienna. Uno degli invitati, travestito da filosofo indiano, si era divertito a distribuire dei frammenti di Zoroastro – così li spacciava – tra i quali anche il nostro indovinello, assicurandone la precipua funzione edificante e spirituale.
Malandrino. Oggi, negli studi dedicati a Mozart, è costante la tendenza a leggerlo come uomo di profondo pensiero, socialmente impegnato, progressista, in anticipo sulle idee di libertà e rivoluzione che avrebbero dominato l’Ottocento. Con la precisa intenzione di ribaltare la corrente estetica precedente, che invece aveva sbandierato il ritratto del bambino prodigio, solo pizzi e crinoline, ideale per la carta stagnola delle Mozartkugeln, i bon-bon al cioccolato di Salisburgo. Inutile sottolineare quanto le due opposte visioni rappresentassero (e rappresentino) anche due conseguenti visioni interpretative della sua produzione. Ma a questo bivio oggi si aggiunge una terza strada, con la quale sarà obbligatorio d’ora in avanti fare i conti.
A contrassegnarla è il passo tranquillo, piano, metodico e quotidiano della cronaca: Mozart visto dai contemporanei. Mozart nelle parole del suo tempo. Mozart citato, venduto, raccontato, commentato. Passo passo e in oltre duemila documenti (2003, per la precisione) segnati ciascuno da altrettante sfumature di tono e carattere. A raccoglierli con certosina e davvero benemerita dedizione è di nuovo Marco Murara, che di professione fa il notaio, dunque con elenchi, esattezza, note, date e spiegazioni va dritto a nozze.
Sono almeno un centinaio, ad esempio, le volte in cui si trova a sottolineare con un «sic!» le storpiature del cognome di Mozart: Motzart, Mozhard, Mozard... i contemporanei si sbizzarriscono e quello che per noi è un termine icona della musica, dalle loro penne esce sbagliato, in continuazione. Lapsus? Incapacità di accettare, insieme al nome, il mondo nuovo che il piccolo uomo di Salisburgo portava con sé? Agli psichiatri l’ardua sentenza. A noi la sorpresa di trovare uno svarione persino nell’accertamento patrimoniale finale, relativo all’«imperial regio maestro di cappella e compositore da camera»: «Amadäus», in bizzarro neo-latino. Ma la sorpresa raddoppia scorrendo l’esiguità del lascito post mortem del nostro: pochi argenti, qualche mobile, pochi libri e poco, poco contante, come nella marcia del «Farfallone amoroso» (Nozze di Figaro). Estremamente sguarnita la biblioteca. Soprattutto se raffrontata con quella enorme del padre Leopold, costruita con ordine. Oggi la si ammira ancora nella casa-museo di Salisburgo (la seconda, non la prima in Getreidegasse) e quando si parla della cultura di Mozart si fa sempre riferimento ai titoli in essa contenuti: certamente formativi della personalità di un bambino, plasmato sui capisaldi del nuovo pensiero illuminista. Ma quanto veramente rimase di tanto passato nel musicista che viveva libero, a Vienna, nei suoi ultimi quindici anni di vita? Stando agli scaffali finiti in eredità alla moglie e ai due figlioletti, ben poco. La lista del defunto appare di fatto così composta: dieci libri, in quarto, in diverse lingue, di argomenti o di storia tedesca o dedicati a Venezia, come il Forestier illuminato della Città di Venezia con figure di Giovanni Battista Albrizzi, del 1765. Poi altri trenta, in ottavo e in dodicesimo, dove si spazia senza ordine dai Tristia di Ovidio (tradotti da un benedettino professore a Salisburgo), alle Commedie di Molière, terza parte; da Sonnenfels, gran maestro di loggia massonica alla Bibbia e al Fedone di Moses Mendelssohn. Spicca una curiosa Arte del punteggiare, tradotta dall’arabo: un metodo, allora in voga, per trarre oracoli da punti, disposti a caso e quindi collegati facendo emergere figure premonitrici.
Mozart lo avrà letto? Quelle linee erano le stesse che si disegnavano sul tavolo del biliardo, nel gioco che sopra tutti amava? Eccolo, anch’esso nella lista dei beni. Il biliardo si trova nella quarta e ultima stanza della casa, dove Mozart muore. Però attenzione, fuori non c’è neve e nemmeno freddo (come vuole la vulgata, film Amadeuscompreso). Ecco un altro topos smentito dalla cronaca, in questo caso grazie al prezioso diario del conte Zinzendorf, alto funzionario della corte di Vienna, che alla data fatidica del 5 dicembre 1791 annota: un po’ di nebbia, temperature miti. È lui uno dei cronisti privilegiati della vita di Mozart. Lo segue da vicino, ne è affascinato sin da quando in molti erano a scrivere sul fenomeno dei due bambini prodigio: fratello e sorella, in giro col padre per le corti d’Europa. Il suo però è un occhio più fino. Nota ad esempio che il piccolo, al clavicembalo, non solo suona benissimo, ma è vivace, spiritoso, e quando – sei anni – una signorina, tale Gudenus, gli dà un bacio, «lui si è asciugato il viso». Cronisti e letterati concordano sulla genialità mostruosa del bambino. Talmente forte da confondere, come scriverà la Gazzetta di Mantova, nel 1770. Finché resta circoscritto nell’ambito del fenomeno, le cronache si divertono: suona con la tastiera coperta da un panno, trova l’accompagnamento a una melodia mai sentita, anzi, ne trova almeno dieci diversi, e continuerebbe ancora, peccato la cantante si fermi, stremata. Lui no. Ovunque arrivi solo osanna (e pochi spiccioli per sentirlo). Cambia radicalmente il passo quando Mozart diventa quello che noi amiamo. Le cronache non lo comprendono. Persino Zinzendorf annota: «Mi sono molto annoiato all’opera Don Giovanni». La sua musica resta un enigma. Ben oltre l’indovinello inventato da Mozart, mascherato da indiano.
A proposito, la risposta: le corna.