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 2021  aprile 18 Domenica calendario

Manganelli porto Otello in fabbrica

Che tra le carte e i videonastri conservati presso l’archivio storico della Biennale di Venezia potesse saltar fuori il nome di Giorgio Manganelli in qualità di autore teatrale, in pochi potevano aspettarselo. Ma che questo avvenga per una sua riscrittura dell’Otello di Shakespeare, portata in scena in un capannone sindacale del Petrolchimico di Porto Marghera, e con un pubblico composto quasi esclusivamente di operai, non potrà che destare qualche stupore.
Eppure, è quanto accadde nel novembre del 1974, quando, all’insegna del rinnovamento di quegli anni, sui manifesti della Biennale oggi custoditi in archivio e al tempo appesi ovunque in una Venezia mezza tramortita dall’Austerity svettava il titolo di un nuovo corso: «Per una cultura democratica e antifascista».
Uno slogan che per l’allora direttore della sezione Teatro, Luca Ronconi, significò la scelta di programmare ben tre diverse versioni di Otello in luoghi decentrati. Una prima, estremamente conservativa nella riproposizione di trama e scena, del regista ungherese Miklós Jancsó – il cui successivo naufragio, traino mancato per gli altri due, tolse le fondamenta al senso del trittico intero – una seconda visionaria e astratta di Memè Perlini, ai Cantieri Navali della Giudecca, e una terza, manganelliana, interpretata dalla Compagnia Teatroggi di Bruno Cirino.
Le dichiarazioni programmatiche contenute nel Piano Quadriennale delle attività 1974-1977 erano d’altronde state molto chiare: «La ricerca di un diverso rapporto con la società e, in particolare con tutti coloro – giovani e lavoratori anzitutto – cui fino ad oggi la struttura sociale abbia impedito di costituirsi come pubblico», contribuendo «alla più generale prospettiva democratica di partecipazione popolare, la quale richiede che lo spettatore-fruitore passivo o pagante possa trasformarsi nello spettatore-fruitore attivo, protagonista e committente». 
E così andarono le cose, se è vero che Manganelli avrebbe poi raccontato nel corso di un’intervista: «Sono venuti loro da me dicendo: “Noi vorremmo un testo scespiriano, e pensavamo in particolare all’Otello”». Ne venne, quindi, una variazione filosofico-morale sull’originale. Un avvoltoio letterario in cui un Otello ridotto a semplice “spalla” lasciava il posto a un centralissimo Iago che, amletizzato, fermava scene e personaggi, procedendo, con un verboso narcisismo dialettico, a una sorta di psicanalisi di se stesso per sviscerare le più intime dinamiche dell’intreccio. 
Pagato il testo in anticipo per 2 milioni di lire, la Biennale vide dunque la sua prima assoluta – autore in “sala” – con la regia di Gianni Serra proprio al capannone della Federazione Unitaria Lavoratori Chimici. E cinque repliche, tra cui l’ultima in un tendone montato al centro di Mestre, gli valsero un totale di ben 2.329 spettatori.
A guastare, però, la linea della nuova Biennale fu, troppo presto, la reazione della critica, che, affrettandosi a dichiarare il totale fallimento dell’operazione, giudicò la scelta di un testo così “oggettivamente difficile” del tutto inadatta per rompere il ghiaccio fra teatro e mondo operaio – addirittura «un atto di leggerezza politica». 
Se qualche critico si limitò, infatti, a descrivere il travagliato viaggio verso il luogo scelto, tra i suoi miasmi e l’inquinamento – o a dire che gli operai, di cui qualcuno in tuta, tra quelle sedie non potessero che sembrare degli “ostaggi” – più virtuosistico e sarcastico fu il commento a fresco di Alberto Arbasino: «Anche la Serenissima più tradizionale e benpensante, invece di allarmarsi tanto per le Nuove Istanze, dovrebbe sentirsi lieta nel constatare che dopo tutto qui il Rococò non è mai morto, giacché le scelte di questa Biennale sono quasi sempre le medesime di Maria Antonietta, regina di Francia. È stata lei, infatti, la prima a vestirsi da povera per decentrarsi dal palazzo di Versailles nelle baracche del Petit Trianon con le sue damine vestite da povere anche loro. E il geniale motto del “dategli delle brioches” chiaramente ispira la decisione di rappresentare per gli operai petrolchimici un testo di Giorgio Manganelli».
Una visione da rivalutare alla luce dei molti dibattiti a fine spettacolo, delle riunioni con l’Esecutivo di Fabbrica, delle 40 interviste fatte direttamente agli operai e alle addette mensa del Petrolchimico e di tutti i molti altri materiali che è oggi possibile recuperare tra gli scaffali dell’ASAC grazie al dossier d’archivio «Otello a Marghera» consegnato alla Biennale nel 1975.
Per chi l’aveva pensato, infatti, questo Othello ovvero Cassio governa a Cipro - come dai programmi di sala – non era altro che la scommessa di un teatro che, proprio al Petrolchimico, potesse mantenere intatta la più alta complessità disponibile sul panorama letterario circostante. Diceva, non a caso, Cirino al microfono poco dopo gli applausi della seconda replica, negli anni dei primi sottoprodotti culturali alla tv: «Ma mi spieghi perché, se il sistema ti toglie la cultura da bambino, te la devo togliere anch’io, venendo qui con una cosa di merda, invece di una cosa bella?». Un Otello da dibattere. Questo lo scopo primario, fino a rendere addirittura accessorio l’evento scenico in sé.
E se qualcuno confessò: «in sostanza, io, scusa, non ho capito un boia» ci fu anche chi, definendo lo spettacolo «bello, però forzato», ci tenne a sottolineare l’importanza di «smontare un lavoro di Shakespeare e far vedere che è un drammone», o la necessità di portare un simile spettacolo proprio al capannone: «perché l’operaio medio oggi: fabbrica, lavoro e cervello poco». 
Una presenza maggioritaria – positivo fu infatti l’80% della risposta operaia – che nelle interviste si contrapponeva, comunque, e in linea con i prevenuti della critica, a qualche disinteressato – «Guardi, sto mangiando, devo andare tra poco al lavoro. Mi interessa solo lavorare, fare bene, avere la paga» – o a qualche altro, aspramente contrario – «Ci sono cose più necessarie che fare spettacoli dove non ci va nessuno. Farebbero meglio a fare i sacchetti delle immondizie con tutti quei po’ po’ di spettacoli che danno lì alla Biennale, premi vari, fra di loro. Che vengano a pulire le strade, a farci le scuole». 
Certo è, però, che con un biglietto a 100 lire, per l’Otello di Manganelli, pronti a discuterlo, operai e sindacalisti a teatro c’erano davvero: «Abbiamo partecipato a lotte che sono cominciate nel ’68 per avere un ente diverso, più vicino alle masse» aveva commentato qualcuno dalla platea proprio sulla Biennale dopo la prima: «e devo dire che perlomeno in gran parte è stato realizzato».