Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 18 Domenica calendario

Il cibo giusto secondo Carolyne Steel

Il cibo può distruggerci. Per la prima volta in 200 mila anni di evoluzione umana, ammonisce un rapporto delle Nazioni Unite, non siamo più in grado di dare alla popolazione mondiale una dieta salutare, mantenendo al tempo stesso l’equilibrio delle risorse del pianeta. «Il cibo può darci un futuro migliore», risponde a questa sfida Carolyne Steel, architetto inglese di grande fama diventata una ancora più celebre guru dell’alimentazione sostenibile.
Il suo primo libro Hungry City (Città affamata), coniugava l’urbanistica con la gastronomia. L’ultimo, Sitopia, come il cibo può salvare il mondo , è un vero e proprio manuale per edificare un diverso sistema alimentare, in cui mangiare più sano senza danneggiare l’ambiente, con vantaggi per il corpo e per l’economia. Un programma in linea con il movimento "slow food" di Carlo Petrini, di cui Steel è uno dei promotori: «A tavola», dice, «l’Italia dovrebbe diventare un modello per tutti».
In che modo è passata da costruire edifici e immaginare una nuova architettura per la catena alimentare?
«Ho sempre amato l’architettura per il rapporto tra edifici e persone, più che per le costruzioni in sé. Le persone mi hanno portata a interrogarmi su cosa fa funzionare una città, cosa dà energia ai suoi abitanti: e il cibo è la risorsa primaria. Forse la mia passione per l’alimentazione nasce dall’albergo che avevano i miei nonni sulla Manica, dove passavo le estati da bambina: mi affascinava quel labirinto di stanze, ma più di tutto mi piaceva stare in cucina. E poi a un certo punto i miei studi di architettura mi hanno portato a Roma e in Italia è impossibile non interessarsi a quello che si mangia».
Tutte le strade portano a Roma, compresa quella che passa per lo stomaco?
«Certamente. Studiando le rovine di Roma, mi sono resa conto che, mentre i Cesari discutevano le sorti dell’impero, l’uomo della strada si preoccupava di cosa mettere in tavola. E non era un’impresa meno importante per lo sviluppo della nostra civiltà».
Cosa vuol dire "sitopia"?
«È una parola che ho inventato io, mettendone insieme due del greco
antico, sitos e topos. Alla lettera significa luogo del cibo: che sarebbe il mondo in cui viviamo, perché il cibo plasma ogni attività umana».
E in che modo il cibo può salvare il mondo?
«Ridandogli il valore che merita. Ci siamo illusi che il cibo potesse costare poco, pochissimo, quasi niente, come il fast food, senza calcolarne gli esorbitanti costi nascosti. Dal cambiamento climatico alla pandemia, molti dei nostri problemi odierni sono collegati a una cattiva gestione della produzione alimentare. Ma non siamo condannati a continuare su questa strada. C’è una via alternativa, fatta di cucina povera, produzione locale, condivisione».
A proposito di condividere, nel libro conia uno slogan di sapore evangelico: "Ciba il prossimo tuo come te stesso".
«Siamo diventati una società troppo egoista e individualistica. A partire dal cibo possiamo riscoprire l’importanza di spezzare il pane e offrirne al nostro vicino, per creare una cultura più comunitaria e cooperativa. I problemi si risolvono solo lavorando insieme, come dimostra anche la lotta al Covid».
"Sitopia" evoca il termine utopia: il suo è un progetto illusorio o un futuro possibile?
«L’utopismo serve a immaginare un futuro diverso, altrimenti continueremmo a usare sempre le solite formule. Anche inventare il fuoco e cuocerci la carne, come impararono a fare gli uomini primitivi, poteva sembrare un’utopia, eppure da quella formidabile invenzione è sbocciato il progresso umano».
Nelle sue pagine c’è una lode dell’anarchismo: non c’è bisogno dei governi e delle organizzazioni internazionali per sfamare meglio il mondo?
«Sicuramente. Il mio omaggio ai sentimenti anarchici è una critica del loro opposto: il dispotismo, il potere assoluto. E un invito a fare sì che ogni cittadino impari a governarsi da solo».
Cosa risponde a chi fa notare che nella Cina di Mao si consumavano 5 chili di carne procapite l’anno e in quella odierna 50 chili e che così facendo la Cina è uscita da fame e miseria di massa?
«Che sono certamente favorevole a un’alimentazione più ricca e che bisogna combattere la fame. Nella Cina di Mao non si mangiava abbastanza carne. Ma forse in quella odierna se ne consuma troppa».
Stesso discorso per l’Italia: nel dopoguerra era tradizione mangiare la carne solo la domenica, poi con il boom economico è diventata un’abitudine diffusa e gli italiani sono diventati più alti.
«Eppure oggi proprio voi italiani siete all’avanguardia nel proporre un ritorno alla cosiddetta cucina povera, che costa di meno, è più salutare e spesso anche più gustosa».
Lei conosce bene il nostro paese, avendo passato un anno a insegnare alla British School di Roma: che cosa ha imparato?
«Che l’Italia ha la migliore dieta alimentare del pianeta: la pasta costa poco, riempie lo stomaco e può essere cucinata con ogni tipo di condimento, e poi pesce, verdura, olio d’oliva, frutta. Nei mercati rionali di Roma c’è la formula giusta per mangiare sano, fare risparmiare a chi compra e creare una catena produttiva indipendente».
In seguito ha fatto spesso delle lezioni alla Slow Food University di Pollenzo, in Piemonte: crede che il nostro paese possa fare da esempio al mondo, perlomeno a tavola?
«Assolutamente sì. E Carlo Petrini, il fondatore del concetto di Slow Food, è un genio. Voglio ricordare solo una delle sue idee che condivido: il concetto di co-produzione. Tutti dobbiamo contribuire alla catena alimentare, ognuno dovrebbe avere il proprio orto, giardino o almeno aiuola coltivata».
Per l’appunto, che cosa c’è nel suo frigorifero, nella sua dispensa, sulla sua tavola?
«Ho anch’io il mio mini-orto, sul tetto di casa, in cui coltivo cetrioli, pomodori e altri ortaggi. Il resto dei prodotti che compro proviene da un farmers’market, un mercato di contadini che vengono a vendere il loro raccolto in città una o due volte a settimana. E sulla mia tavola l’alimento numero uno è il pane. Se quello è buono e naturale, il buon pasto è assicurato».