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 2021  aprile 17 Sabato calendario

Biografia di Franco Ferrarotti raccontata da lui stesso

È sorprendente quanta energia Franco Ferrarotti metta in tutto quel che fa. Invidiabile la tenuta fisica e mentale di quest’uomo che ha compiuto 95 anni una decina di giorni fa. Ricorda tutto (o quasi) il sociologo per antonomasia. Sua fu la prima cattedra in Italia.
Ricorda, perfino con dettagli che avevo dimenticato, il nostro primo e unico incontro avvenuto 8 anni fa. Ho riletto l’intervista che gli feci allora. Non è cambiato: stesso gusto per la provocazione e sprezzo per nove decimi della cultura italiana: «Sa qual è il problema?» Mi incalza. No, gli dico. «Il problema è che la cultura italiana tende a tradurre i problemi etici in atteggiamenti estetici. Siamo un cultura prevalentemente aulica, concentrata sul fronzolo. Che non perde occasione per commemorare e distribuire onorificenze. Tutto in essa odora di funebre».
La ritrovo particolarmente aggressivo.
«Arrabbiato no, disincantato. Pensa che la sociologia sia ancora una voce ascoltata nel paese?».
Ci sono autorevoli istituti di ricerca.
«Ottimi per la toletta del morto. Guardi, in giro vedo molti studiosi di statistica, filosofi e politologi ovunque, ma scarseggiano i sociologi. Gli unici che sembrano aver raccolto il senso della professione sono i giornalisti d’inchiesta. Per il resto ho l’impressione che la sociologia sia tornata agli anni Trenta. Quando era tollerata solo come criminologia e demografia. Lei è troppo giovane per ricordarsi di Corrado Gini».
Chi era?
«Un grande statistico e demografo. Andava ogni sei mesi a rassicurare Mussolini dicendogli che gli italiani pompavano».
Pompavano?
«Sì, mettevano al mondo figli e il duce era tutto felice».
Di sociologia non si parlava.
«Poco. Per un secolo e mezzo il sociologo ha fatto soprattutto anticamera. Ha disperatamente imitato e fatto il verso agli scienziati della natura temendo che la sua fosse una scienza inferma. Eppure, già per una donna straordinaria come Simone Weil era chiaro che non tutto il conoscibile è per ciò stesso misurabile».
Poi è arrivato lei.
«Ho provato a non ridurre la sociologia a meri fattori quantitativi».
In che modo?
«Distinguendo le scienze dimostrative da quelle interpretative. Così da immettere nel discorso sociologico fattori che concernono la vita delle persone, la quotidianità, i ricordi».
Sociologia come vissuto.
«Ho girato tra le periferie del mondo per mettere alla prova queste scelte».
Dove è stato?
«Tra le favelas brasiliane, nell’Europa dell’est, in India, nelle Americhe. Ho insegnato ovunque tranne la Cina: l’inquinamento avrebbe ucciso i miei polmoni malmessi».
Perché l’Italia non ha avuto, o meglio ha avuto solo tardi, attenzione per la sociologia?
«Perché da noi la società industriale è nata tardissimo. Non a caso è stato quel paranoico di Auguste Comte a inventare, nella penombra del suo appartamento parigino a due passi dell’Odeon, la scienza sociologica».
A lei invece il compito di introdurla in Italia.
«Non è stato facile. Istituii la prima cattedra a Roma nel 1960. Vennero a trovarmi Norberto Bobbio e Sergio Cotta e mi invitarono alla cautela».
Cioè?
«Mi dissero più o meno questo: hai una responsabilità. Sii molto selettivo, non aprire a tutti quelli che busseranno».
E lei?
«Feci il contrario, la mia facoltà divenne un porto di mare. Fu una specie di rifugio per peccatori, per chi aveva fallito con lettere, con filosofia, con matematica».
Era per la cultura dello scarto.
«È tipico di una disciplina nuova, senza vere tradizioni, attirare gli scarti. Oltretutto, stava nascendo l’università di massa. Inutile fare gli schizzinosi, gli elitari con la puzzetta sotto il naso. Tanto quelli bravi e brillanti sarebbero emersi comunque».
Ne ha avuti tra i suoi allievi?
«Qualcuno di promettente c’è stato, qualcun altro si è realizzato. Ma in generale sono contro scuole e scolette, contro gli allievi che ti mettono sul piedistallo chiamandoti maestro. Di che cosa? I legami universitari sono consorterie, combriccole, forme di parafamilismo. Meglio morti che raccomandati. Sono dell’idea che occorre fare molte esperienze prima di darsi all’università».
Ne ha fatte parecchie?
«Ho lavorato, grazie all’amicizia con Pavese, per Giulio Einaudi. Sono stato uno stretto collaboratore di Adriano Olivetti. Ho viaggiato e scritto. E ho pensato che il mondo è maledettamente interessante, molto più di una cattedra universitaria. E poi ci sono le persone che ho incontrato».
Chi?
«Da William Faulkner a Marshall McLuhan, da Herbert Marcuse a György Lukács che andai a trovare a Budapest pochi mesi prima che morisse».
Ricordo una sua lunga intervista su "Critica sociologica".
«Sulla porta di casa c’era scritto G. Lukács, Akademikus.
Un dettaglio che lasciava intravedere, più che la vanità, la nostalgia per un mondo ormai sparito. Suonai e venne ad aprirmi quest’uomo piccolo con in mano un grande sigaro. Parlammo a lungo, in francese e in tedesco. Aveva la consapevolezza della storia come dote individuale che deve tuttavia diventare collettiva. La governante ci portò a un certo punto il caffè. Imbevibile. Fu la sola nota incerta in un pomeriggio incantevole».
Che cosa accadde dopo?
«Uscii e vidi seminascosti un paio di individui che credo fossero adibiti al controllo stranieri. Si faceva sera, Budapest era bellissima. Pensai ancora a quell’uomo che nonostante tutto conservava una grande libertà mentale. Mi infilai in un vecchio ristorantino, dove un vecchio pianista suonò su un vecchissimo pianoforte alcune note di un valzer. Sembrava lo scampolo sopravvissuto dell’antica mitteleuropa».
Le sarebbe piaciuto conoscere Max Weber?
«Morì nel 1920, sei anni prima che nascessi. Avrei voluto incontrarlo, certo. La sua opera è imprescindibile per il ‘900. Ricordo un’accesa discussione che ebbi a Chicago con Leo Strauss, il quale rimproverava Weber di aver disconosciuto l’importanza dei valori. Non capiva che l’avalutatività delle scienze sociali era per Weber il modo con cui difendeva la sociologia dalle pretese ideologiche. Crepò di febbre spagnola a 56 anni, la stessa età in cui se ne è andato mio padre».
Con suo padre non ha avuto un buon rapporto.
«Non ho fatto in tempo a comprenderne la grandezza.
Quando nacqui, lo seppi dopo, mi definì un menagrano. Ero uscito pieno di malanni in un anno, il 1926, in cui l’Italia subì una delle sue peggiori crisi agricole».
Provocata da cosa?
«Fu l’anno della "Quota ‘90", provvedimento economico con cui Mussolini pretese di difendere la lira e invece travolse i contadini che per colpa dell’inflazione non poterono far fronte ai prestiti con le banche. Molti si suicidarono, molti altri appiccarono il fuoco alle loro fattorie. Tutte le colline piemontesi, intorno a Palazzolo Vercellese, erano illuminate dai falò».
Perché bruciavano le loro case?
«Speravano nell’assicurazione. Ingenui! Persero tutto.
Anche mio padre rischiò la disfatta. Ma alla fine riuscì a tirarsi fuori dai debiti».
Attribuì a lei la colpa?
«Pensò che mai nascita fu meno lieta».
E dopo?
«Continuò ad avercela con me, per via che ero un ragazzo che studiava e soprattutto leggeva. Odiava la cultura libresca. Per lui le cose si sapevano solo confezionandole con le proprie mani. Allora non lo capivo. Ma poi, quando è morto, compresi che la durezza dei padri è essenziale.
Tutto il montessorismo, il buonismo, la comprensione sono stati un enorme equivoco pedagogico».
Non dà l’idea del padre severo.
Non lo sono stato con i miei quattro figli per pigrizia e per quieto vivere. La verità è che non esistono padri buoni o cattivi. Ci sono solo padri vicini o lontani».
La considerano il padre della sociologia italiana, si riconosce?
«Achille Ardigò diceva che avrei dovuto essere il papa».
Settant’anni fa lei fondava i "Quaderni di sociologia".
«Emile Durkheim aveva fondato i Cahiers de recherche sociologique. Mi chiesi perché non ci fosse niente di analogo in Italia. Poi, finita la guerra, andai prima in Inghilterra e successivamente a Ivrea con Olivetti. Fu in quel periodo che raccontai a Nicola Abbagnano il mio progetto. Gli piacque e lo realizzai con la Taylor, la casa editrice della moglie. Poi partii per gli Stati Uniti e lasciai la gestione della rivista ad altri».
A chi?
«A un gruppo di sociologi milanesi che nel frattempo era subentrato. Non amo conservare quello che faccio. Sono un autodistruttivo».
Un dissipativo.
«Ma sì. È una delle ragioni per cui mi sono quasi sempre dimesso dai ruoli di vertice. Lei non può immaginare l’ebbrezza che provavo nell’alzarmi da un tavolo di riunione, pronunciando le poche parole fatali e uscire sbattendo la porta».
Quasi una patologia.
La verità, come mi disse un analista, è che non ho il Super Io».
In compenso ha una memoria di ferro.
«Sono ipermnestico, anche questa è una malattia».
Vive la memoria come un impedimento?
«Al contrario, è una risorsa. Anche se instabile. Se venisse meno la memoria crollerebbe tutto. Essa ricrea e dimentica. Siamo memorie ambulanti, ricordi personificati. Siamo ciò che ricordiamo di essere stati: prodotti deteriorabili, senza una data di scadenza».
A dire il vero una scadenza l’abbiamo.
«Ma non la conosciamo. Avrei mai potuto immaginare che un bambino fragilissimo, esposto alle malattie peggiori potesse arrivare in buona salute a 95 anni?».
Pensa mai alla morte?
«La penso come fosse il senso più profondo del limite. In una società fortemente sviluppata come la nostra, è la tecno-biologia ad aver preso il posto della teologia.
Sempre meno la morte è intesa come un passaggio a un’altra vita. Sempre meno riflette il senso della tradizione. In America restai colpito dalle Funeral Homes, i cui arredi color pastello mi ricordavano le gelaterie. Emanavano una singolare gaiezza. Ebbi per la prima volta la sensazione che la morte fosse un affare redditizio, la gestione di un prodotto commerciale da pubblicizzare come uno shampoo o una lavatrice».
A proposito di America accennava alla conoscenza di William Faulkner.
«Lo conobbi in Italia a una conferenza. Ricordo la presenza di Silone e Moravia. Ero tra i pochi, forse il solo, a conoscere perfettamente l’inglese. Andammo a cena e così per il resto della settimana in cui restò a Roma».
Che anno era?
«Il 1961. Ce l’aveva con Kennedy, eletto da poco alla presidenza. Gli chiesi perché e lui rispose che Kennedy voleva abolire la segregazione al Sud; aggiunse che era disposto a prendere il fucile per difendere il Sud. Cambiai discorso. Parlammo di cavalli e di concime. Non gliene fregava niente degli scrittori italiani e degli intellettuali».
Lei cosa pensa degli intellettuali?
«Era una corporazione, ora non è più niente, o quasi».
E dell’intellettuale italiano?
«Uno spaghettaro, gli piace attovagliarsi nelle cene e discettare di tutto. Ma ama farlo a chilometro zero».
Si riconosce?
«Ci siamo tutti, più o meno, dentro. Ma almeno ho viaggiato, conosco le lingue e non vado più a cena fuori».
Le mancano le cene?
«No, qualcuno mi definì un eremita socievole. Mi piace la solitudine, come scelta, se fosse imposta sarei infelice».
Ha una definizione della felicità?
»Una casa piena di libri, un giardino pieno di fiori. Non è mia, è di Lao Tse».
A proposito, so che la sua casa fu progettata da un grande architetto.
«Fu il mio amico Alvar Aalto ad idearla. Una casa finlandese incistata nel quartiere Trieste. Pura follia!».
Disordinata come il suo studio?
«Il disordine è vita. Tutto nasce dalla palude e dal caos, ed è lì che prima o poi torneremo».