È un bene che la malvarosa abbia spaccato la toppa che gli stradini hanno messo quest’inverno all’asfalto di via del Gesuita; è appena fiorita, imperterrita, grandiosa nella sua strafottenza, è di una bellezza selvatica e rabbiosa, vittoriosa sulle disgrazie del mondo e sul bitume. Non è una divinità la malvarosa, è, ne sono certi gli stradini, una gran puttana, e farà vita sfacciata e breve; morirà al primo gelo, ma le sue discendenti fioriranno ancora violando ogni pudore, fregandosene altamente se ormai via del Gesuita non avrà più dell’asfalto e uno stradino per sé. E anche questo è un gran conforto. Per non dire della gran gioia, sgaiolante infantile, che mi dà infilarmi il pennato alla cinta e scendere al rivale del fiume all’inesausta ricerca del mitico passaggio che un tempo portava alle chiuse di Errano e da lì al guado dei bovi, e dal guado a un’ansa di sabbia finissima e acqua di topazio, luogo di leggenda mai più visitato dalle infanzie del secolo scorso. C’è un’impenetrabile foresta di pruno che oscura e interdice il passaggio, farsi strada è contendere con gli spiriti pruneschi in una sfida senza esito; il lavoro di lama del pennato non è che un favore di sfoltitura e pettinatura, il pruno se lo gode e se ne fa vanto, ci tiene a farsi trovare dal suo parrucchiere ogni volta più scarmigliato e graffiante che pria. Mi consola oltremodo immaginare che un giorno mi sdraierò nella rena di quell’ansa, mi consola la certezza che il pruno la terrà ben protetta anche quando io non avrò più forza nemmeno per affilare il pennato, e altri ragazzini e altri rimbambiti mi succederanno con attese di esploratori e esiti di barbiere. E mi danno consolazione i papaveri, gentili, impalpabili rosse bandiere che oggi palpitano al refolo del garbino sulle ripe di via Cornacchia, mi rallegra vederli fiorire anche quest’anno a un palmo dai coltivi dell’orzo e del grano. Li davano sterminati, al consorzio giurano che con i nuovi disserbi non se ne parla più, eppure eccoli che li hanno fregati, delicati quanto sono, gli è bastato spostarsi di un filo dai seminati e son tornati a germinare, stendardi di un’esile vittoria, ma pur vittoria. E non sarà il prossimo, e nemmeno quello dopo ancora, ma ci sarà l’anno che un seme o due saprà cavarsela nel veleno, forse ne fiorirà un papavero un po’ così così, ma sarà pur sempre un rosso fiore, poi si vedrà. Mi rallegrano da non dire le rose di Santa Rita, le rose selvatiche che tra qualche giorno furoreggeranno attorno al bersò; le rose delle spose proletarie, le rose che a mazzi mi vengono a rubare di primo mattino le vecchie della parrocchia per infiorare l’altare della santa delle cause perse, la loro santa. Mi dà molto conforto che, uniche nel nostro roseto compromesso da rose di squisita sciccheria, ibridi da capogiro, rari innesti provenienti da vivai sultaneschi, abbiano fottuto il coleottero dorato che ha succhiato via l’anima a tutte le gran dame. Quell’insetto malefico se n’è venuto dalla Cina con il mandato di spiegare per bene la globalizzazione, le rose di santa Rita lo hanno edotto sul concetto di resistenza al nazifascismo, e ora gli stanno alla larga in attesa di rinforzi, che forse verranno e sarà ancora battaglia, ma intanto eccole lì le indomite guerrigliere delle cause perse.
Non conosco tutte le piante dell’universo qui intorno, viviamo insieme, loro parlano e io non capisco. Ad esempio non capisco la vitalba assassina che si sta mangiando il bosco del vecchio Rodolfo, non capisco la cicuta che prospera proprio ai piedi del glicine e ha mezzo ammazzato la gatta Nilde, non capisco i pini del filare sul ciglio del calanco di Longanesi che si schiantano uno a uno sotto il loro stesso peso. Per la verità capisco poco e niente della sterminata repubblica che delibera sopra la mia testa, sotto i miei piedi, tra le mie mani. Di certo so che mi dà una gran gioia vederla così complicata, e antica e progressiva. E un gran conforto che, con tutti i danni che posso aver fatto, alla fine le sarò di un qualche giovamento, allorquando mi sarò fatto di squisito azoto concimante.