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 2021  aprile 17 Sabato calendario

Come salvare il mondo secondo Amitav Ghosh

I libri di uno dei più amati scrittori indiani, Amitav Ghosh, hanno venduto tre milioni di copie e sono stati tradotti in più di 30 lingue. Dal 2016, il suo saggio La grande cecità – Il cambiamento climatico e l’impensabile ispira molti a parlare di più della crisi ambientale. Nel suo romanzo più recente,L’isola dei fucili (Neri Pozza), Ghosh ha messo in pratica il suo stesso consiglio: la letteratura deve dare un ruolo centrale al problema climatico. Lotroviamo nella sua casa a Goa, in India».
Cosa pensa dell’intreccio tra riscaldamento globale e pandemia, nel contesto dell’iniziativa One Health dell’Onu che unisce diverse discipline a livello locale, nazionale e globale allo scopo di migliorare la salute di persone, animali e ambiente? Distrarrà o aiuterà la battaglia alla crisi climatica?
«Non so se ci siano studi che dimostrino una correlazione diretta tra cambiamenti climatici e Covid 19, ma affiorano entrambi dalla costante accelerazione, negli ultimi trent’anni, dei consumi, della produzione, delle emissioni e degli insediamenti umani che portano a un contatto sempre più stretto con la popolazione animale. Infatti, più che una crisi climatica preferisco definirla una crisi planetaria, perché è composta da vari fattori intrecciati in maniera catastrofica».
Se venisse invitato al summit sui cambiamenti climatici organizzato dal presidente americano Biden il 22 e 23 aprile cosa direbbe ai leader mondiali?
«Che devono riconoscere che negli ultimi sessant’anni abbiamo percorso la strada sbagliata dell’illimitata crescita capitalista. Le emissioni sono solo sintomi di una malattia ben più grave che è una malattia dell’anima. L’unico che dice qualcosa di sensato sulla crisi planetaria è papa Francesco, il quale ha spiegato che viviamo una crisi di valori».
Lei sostiene che le religioni dovrebbero allearsi ai movimenti di protesta per salvarci dalla crisi planetaria. A parte il cattolicesimo, qual è il ruolo dell’Islam, dell’induismo e del buddismo?
«Qui in India sotto l’egida del fondamentalismo religioso sono state eliminate le leggi a favore dell’ambiente, riaprendo le foreste alle società minerarie i cui proprietari, che si dichiarano profondamente induisti, non ci pensano un attimo a distruggere ambiente, animali e modi di vivere delle popolazioni Adivasi. Spesso gli atteggiamenti religiosi sono solo una forma di green-washing, sia in India che in paesi musulmani come la Turchia dove, con la scusa della religiosità, Erdogan ha promosso la crescita economica a tutti i costi, costruendo palazzi fantastici per se stesso e distruggendo l’ambiente con il capitalismo estrattivo. Lo stesso vale per il buddismo in Thailandia. Ma negli ultimi trent’anni espressioni di spiritualità biocentriche e terracentriche stanno acquisendo peso negli Stati Uniti e in Europa. E cresce l’importanza del linguaggio della sacralità della Terra. In Nuova Zelanda, gruppi indigeni hanno ottenuto che la Corte Suprema riconoscesse lo status di persona e di sacralità per un fiume. La protesta anti-estrattiva più efficace degli ultimi anni è stata quella dei nativi americani contro l’oleodotto in Nord Dakota, dove i giudici hanno accolto il concetto di sacralità del territorio».
Per contro, come lei ha dichiarato, «gli occidentali ventriloquizzano la natura tramite gli scienziati».
Qual è, dunque, il ruolo dell’immaginazione nel capire i cambiamenti climatici? Ritiene che la Natura abbia la capacità di agire indipendentemente?
«La scienza può spiegarci molto sul funzionamento delle cose, non su ciò che le cose significano. Questo è il ruolo degli scrittori che lavorano con l’immaginazione per spiegare il significato delle cose.
Ed è proprio per questo che molti scienziati, oggi, invocano il linguaggio della sacralità: quello della scienza non basta a far cambiare atteggiamento su ciò che ci circonda. Domandarti se la natura può avere un significato stabilisce di per sé una relazione etica tra te e il mondo. E un numero crescente di studi dimostra che la natura agisce indipendentemente ovunque. Gli alberi comunicano, interagiscono, si aiutano. Quando iniziò la grande caccia alle balene nell’oceano Atlantico, i cetacei cambiarono comportamento, comunicando tra loro e reagendo in maniera difensiva. Questi esempi dimostrano che ciò che è strano è piuttosto il concetto che la natura non agisca indipendentemente. Chi lo pensa? L’idea è emersa dall’Illuminismo europeo, quando alcuni filosofi europei discettavano sul fatto che gli animali sono delle macchine e che solo gli umani hanno la capacità di agire indipendentemente. Prima di allora nessuno aveva messo in dubbio questo fatto sulla natura. E ancora oggi la maggior parte delle persone crede che la natura abbia questa capacità. La vera domanda è: com’è possibile che questa piccola élite di maschi occidentali sia riuscita a imporre la propria visione del mondo sul resto del pianeta? Tramite la violenza coloniale».
Ne "La grande cecità" lei descrive come la cultura del desiderio sia alle radici dell’intossicante economia del carburante fossile. Sempre colpa della colonizzazione?
«Ciò che tiene in piedi l’economia è il consumo di massa. Oggi, un nuovo capo d’abbigliamento viene indossato in media solo sei volte, poi viene gettato e non viene più riciclato. L’insoddisfazione dei desideri consumistici sta accelerando. Tutto ciò non è accaduto per caso, ma tramite 300 anni di colonizzazione occidentale. Quando gli europei iniziarono a colonizzare il mondo, una della cose che odiavano di più delle popolazioni non bianche, in Asia o in Africa, era che erano spesso contente di quel che avevano. Ciò che più irritava i coloni americani dei nativi era che non desideravano le cose che i bianchi bramavano. Erano contenti, a modo loro. Quindi i coloni cercarono di far aumentare i desideri dei nativi. Ciò che oggi chiamiamo "sviluppo" è solo un sistema per spingere la gente a desiderare sempre più cose».
Rendendola infelice?
«Esatto, rendendola scontenta. Il capitalismo è un macchina che produce scontento, da colmare con il desiderio che si nutre di consumismo. Questo è davvero il suo obiettivo principale, in fin dei conti.
Oggi Cina, India e Indonesia si stanno autocolonizzando, replicando gli stessi schemi, soprattutto in rapporto alle popolazioni indigene».
Lei ha detto che il problema non è il negazionismo della crisi climatica ma la sua indicibilità. «Ognuno pensa che il cambiamento climatico stia accadendo su uno schermo. Tutto è diventato spettacolo. Ma noi non siamo solo degli spettatori». Come siamo arrivati a questa condizione?
«Si è sviluppata in un periodo molto lungo. Ma Internet ha accelerato tutto. Pensiamo a chi, oggi, di fronte a un pericoloso tornado è più interessato a farsi selfie che a salvarsi. Questa gente è convinta di vivere in un mondo virtuale e che gli eventi della Terra non li danneggerà in modo catastrofico. Quando, nel 2016, intervistai i ventenni bengalesi, pachistani ed egiziani sbarcati nei centri d’accoglienza italiani, chiesi loro perché avevano affrontato questi rischi e compresi che anche loro, a causa dei loro telefonini, vedevano se stessi come abitanti di un mondo virtuale. Ciò mi fece capire che ormai la tecnologia dei telefonini è ubiqua e ineludibile. Ed ha creato in tutto il mondo la sensazione di vivere in una realtà virtuale. È come se la tecnologia avesse unito le forze con la Terra per prenderci in giro».