Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 17 Sabato calendario

Intervista a Tim Parks

Meraviglioso calore umano e sistematica crudeltà. Tra questi due opposti (ma lo sono davvero?) oscilla l’Italia di Tim Parks, perché tutto il mondo non è paese, anche l’allegria e la tristezza hanno un marchio nazionale. Parks, inglese di Manchester, 66 anni, è arrivato in Italia nel 1981 per amore e non se n’è più andato. Ha insegnato nelle università e scritto molto. Questo Italian Life è in un certo senso il bilancio della sua conoscenza del nostro paese ("Ci vogliono anni, avvertiva Stendhal, per penetrare nell’intimo la società italiana") attraverso personaggi, characters si direbbe in inglese, che agiscono all’interno e intorno a una facoltà universitaria. Una commedia italiana, nella quale ogni riferimento a fatti realmente accaduti o persone esistenti è casuale. Ma proprio per questo più vero.
Professor Parks, è più facile o più difficile scrivere sull’Italia da stranieri?
«Il problema è che si rischia sempre di oscillare tra denuncia ed elogio. La denuncia è noiosa perché l’abbiamo letta mille volte e l’elogio, va da sé, è ugualmente noioso. E poi, per denunciare, c’è bisogno di trovare fatti straordinari. So per esperienza quanta resistenza c’è quando uno straniero dice certe cose, già Leopardi nel Discorso sui costumi degli italiani aveva fatto notare che se uno straniero parla male dell’Italia non ha capito niente. E nessuno ha parlato peggio degli italiani di Leopardi».
Però il suo è anche un libro di denuncia sul potere nelle università. Tutte situazioni che lei ha vissuto?
«Come dice Sallustio: queste cose non avvennero mai, ma sono da sempre. Lo cita Roberto Calasso nelle Nozze tra Cadmo e Armonia. Ecco io volevo raccontare fatti che ahimè succedono quotidianamente senza essere straordinari rubando qua e là caratteri italiani agli autori che conosco e sui quali ho scritto, Manzoni, Natalia Ginzburg, Silone, Pavese. Volevo trovare un lato emotivo comune, perché l’emotività è diversa da paese e paese. Qui succedono storie che in America non succedono e viceversa».
Quali sono i caratteri di queste storie?
«I personaggi si muovono in una dinamica tra un campo di valori e di appartenenza. Un giovane italiano all’università deve decidere come orientarsi in questa farsa che è effettivamente la preparazione e la presentazione della tesi. È una dinamica che conosco bene, perché, a parte i miei infiniti studenti, ho tre figli».
Perché la definisce farsa?
«Perché è un’assurdità: tredici persone che devono valutare con un voto una persona su una cosa di duecento pagine che una sola di quei tredici ha letto. E tra di loro c’è spesso un gioco di rivalità funzionale a mantenere o crescere la carriera e il potere nell’università. Volevo raccontare la meschinità di quello che succede, la crudezza casuale di certe situazioni che tuttora mi stupisce. Ed è diffusa».
E secondo lei come deve comportarsi uno studente?
«Conviene credere al 100 per cento che il progetto è serio, anche se è facile capire che quella serietà è praticamente impossibile date le scarse risorse dell’università. Anche per questo un italiano è costretto a un certo cinismo, sentimento molto diffuso, perché tutto viene considerato come il risultato di una cospirazione. Nel libro c’è la figura emblematica di questo, il professor Galli, che ama conoscere il retroscena di ogni possibile situazione e che boccia come ingenua qualunque posizione di chi vuole credere in qualcosa».
I due personaggi estremi sono da una parte Ottone, il rettore-barone che sottomette docenti e studenti. Dall’altra Valeria, ragazza del sud che si emancipa dalla vischiosità famigliare, studiosa diligente che alla fine viene respinta dal sistema. Personaggi autentici?
«Tutti conosciamo queste figure. Non avevo bisogno di inventarne di particolari, dovevo solo prendere il peggio di quelli che ho conosciuto. Però non voglio dare l’idea di gridare che tutto sia scandalo, ma semplicemente narrare una situazione dove è impossibile ottenere voti che rispecchino i valori. L’Italia pullula di docenti che hanno voluto smascherare queste situazioni. Non ho nulla da aggiungere riguardo ai meccanismi dei concorsi e delle abilitazioni: è evidente che si tratta di un modo folle di giudicare le competenze. La procedura di abilitazione per un ordinario è allucinante, non rispecchia minimamente quello che uno può offrire, l’insegnamento non viene mai valutato per quel che è».
Mi può fare un esempio?
«I parametri usati per una valutazione, i punteggi per le pubblicazioni su riviste che vengono considerate di serie A senza che nessuno sappia chi ha dato questo certificato. Una volta che avevo disperatamente bisogno di una pubblicazione per raggiungere i famosi paramenti, ho telefonato a una rivista, ho chiesto se potevo scrivere, mi hanno detto di sì, nel giro di un mese ho fatto la ricerca, ho scritto e ho avuto l’accettazione in 24 ore. Tutti sanno che funziona così e che grazie alla necessità di questi punteggi ci sono pubblicazioni infinite che nessuno legge. Tutto questo crea uno scoramento tremendo, sarebbe molto meglio che tutti stessero zitti finché non avessero qualcosa di importante da dire».
E questo avviene solo in Italia?
«No, in tutto il mondo. Ho un amico molto caro, è filosofo, professore. Seguo con attenzioni le sue pubblicazioni e noto che in quel campo il problema è diverso. Ma con il sistema del peer review è molto difficile pubblicare idee contrarie alla moda o al pensiero corrente. Più volte sono stato nella commissione editoriale per una rivista dopo una conferenza. Arrivavano delle cose allucinanti, imbarazzanti. Io non riesco ad accettarlo».
Nel libro racconta la sua tragicomica esperienza con il premio per la traduzione al Ministero dei Beni culturali, prima come traduttore e poi come membro della giuria, il cinismo dei funzionari ministeriali romani, la conventicola degli intellettuali che premiano libri mai letti...
«Non mi chieda altri dettagli, ho scritto tutto quello che c’era da dire. Posso però aggiungere che anche nel mondo anglosassone molto raramente c’è qualcuno che valuta attentamente la traduzione. C’è il famoso caso di quel libro della coreana Han Kang, La Vegetariana che fu tradotto da una giovanissima inglese e che ha vinto il premio più importante. Nella giuria non c’era un solo membro che sapesse leggere il coreano».
Lei lo ha letto?
«Con attenzione e ho riscontrato infiniti problemi, dettagli che chiaramente non stavano insieme. Ma la cosa più interessante è che si è scoperto che il 10 per cento della versione inglese era stato inventato e non c’era nessun riscontro con la versione coreana. E così, quando l’editore italiano ha acquistato il libro, il testo era così diverso dall’originale che ha preferito pubblicare la traduzione inglese. Chi legge la versione francese troverà un libro molto più coreano e molto meno occidentale».
Cosa dimostrano la sua esperienza nella giuria del premio in Italia e questa vicenda della coreana?
«Il problema del mondo della cultura è che quando noi sbagliamo, nessuno muore. Ma il fatto è che si creano delle enclave con livelli infimi di corrispondenza tra giudizio e valore e si possono avere anche enclave di eccellenza sulla qualità. La narrativa ci aiuta a capire, bisogna solo narrare e dire che queste cose succedono».
Tornando all’Università, tra i suoi personaggi si intrecciano sentimenti diversi. Tra tutti colpisce l’amicizia. Anche questo è molto italiano?
«Ovunque si trovano amicizie quando si è in difficoltà, ma certo la solidarietà tra studenti agli esami che si vede in Italia è invece, inaudita In Inghilterra. Anche perché non esiste l’esame orale pubblico».
Come funzionano gli esami?
«A Cambridge i compiti di laurea, tutti scritti, venivano mandati a correggere a persone che non sapevano chi eravamo noi. Il problema è che lì, a differenza dell’Italia, non sai nemmeno cosa devi dire per far piacere ai professori che ti giudicano. Devi cercare di essere intelligente e basta».
L’esame orale è una particolarità italiana?
«Tempo fa parlavo con il professor Christopher Ricks, uno dei pochi docenti di letteratura che ha ricevuto il "Sir" dalla regina. Gli ho spiegato come funzionavano qua gli esami e lui mi ha detto che non potrebbe farlo: ‘quando io correggo il testo di un esame è importantissimo per me non sapere chi è la persona, non sapere nulla, così sono tranquillo. Io voglio solo leggere il testo».
Siamo inevitabilmente finiti in un confronto tra sistemi e paesi.
«Sì, ma l’ho lasciato fuori dal libro. Io considero invece l’esame orale molto interessante, se gestito bene è un modo molto efficace per snidare o esaltare la persona che conosce cose che non facevano parte dell’esame scritto. Il problema è che è quasi impossibile farlo bene. Parlavo recentemente con un professore che ha 250 studenti in una magistrale di letteratura italiana, ne passa 30, 40 al giorno, per vari giorni. Esaminare davvero una persona in queste circostanze è una follia».
E come si valuta?
«C’è chi tende ad essere molto generoso, chi meno. È anche un fatto casuale, tutti sanno che avere il professore o l’assistente all’esame è molto diverso. E poi penso che ripetere l’esame infinite volte sia davvero straordinario. Anche se credo che, alla fine, chi è veramente incapace, viene bocciato».
Con quale sentimento ha finito il suo libro?
«Ne sono rimasto molto turbato, ho rivissuto tutta la mia passione per l’insegnamento, ho sentito molto fortemente quanto dovrebbe essere bella e appassionante l’università. E ogni tanto lo è davvero. Ma anche quanto è triste raccontare queste storie di gestione del potere universitario, la dispersione di talenti, la mortificazione di persone di valore, come il personaggio di Valeria, che avrebbe meritato molto di più. Resto comunque attaccato all’idea di insegnamento».
E all’Italia?
«Le rispondo anticipando che il mio prossimo libro sarà il racconto di una camminata fatta con la mia compagna tra Roma e Cesenatico sul percorso compiuto da Garibaldi con i suoi quattro mila soldati dopo la caduta della Repubblica Romana».
Garibaldi, l’uomo che ha cambiato la storia d’Italia ma non gli italiani…
«Tutti amano il Gattopardo, perché giustifica qualunque qualunquismo. Una figura come Garibaldi non può non dare fastidio perché ha creduto e cambiato delle cose. Certo non tutti possiamo essere Garibaldi, che non avrebbe insegnato nelle università dov’è necessario un certo cinismo ed è più facile credere che è inutile alzare la voce tanto le cose non cambiano. Avere come obbiettivo il fatto di conservare il posto fisso con stipendio, fa parte di una cultura orrenda che non può portate da nessuna parte, collettivamente».
Lei è qui da quarant’anni, ha mai avuto la tentazione di tornare in Inghilterra?
«Ho avuto delle offerte, anche ottime ma poi… Le racconto questo aneddoto di alcuni anni fa. Mi trovavo a Londra, ho visto per caso che in un cinema davano Caro Diario di Nanni Moretti, in italiano, con sottotitoli in inglese. Sono entrato, ho visto il film e quando sono uscito, ho pensato: devo tornare in Italia. Ero ormai integrato. E dunque, nonostante tutto, Italia».