Tuttolibri, 17 aprile 2021
Storia del caffè (scritta da Augustine Sedgewick)
«Molti anni dopo, Jaime Hill avrebbe ripensato al pomeriggio del suo sequestro e dato la colpa al padre». Comincia come un romanzo questo corposo e appassionato saggio di Augustine Sedgewick dedicato alla storia e alle trasformazioni imprenditoriali del caffè. La frase iniziale riecheggia addirittura il celeberrimo incipit di Cent’anni di solitudine: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio».
Un rimando nient’affatto casuale, visto che è proprio l’America Latina il fulcro di questa vastissima ricognizione che dalla storia del cibo s’allarga a macchia d’olio, o meglio di caffè, a scandagliare le scoperte scientifiche, le teorie economiche, i mutamenti politici e produttivi, le strategie pubblicitarie che hanno accompagnato il consumo della fatidica bevanda fino all’odierno sviluppo planetario. Anziché nella Macondo di García Márquez, Coffeeland ci porta nel piccolo stato centroamericano del Salvador, dove James Hill, il nonno di Jaime, era approdato nel 1889 dai bassifondi della Manchester industriale in cerca di fortuna. E tra alti e bassi aveva finito per trovarla sulle pendici d’un vulcano.
A ben guardare è tutta una storia di discese ardite e di risalite: quelle dei prezzi del caffè, come degli esseri umani affamati che per guadagnarsi il cibo dovevano arrampicarsi su per i greppi o calarsi nelle forre del vulcano Santa Ana, il più alto del Salvador, per raccogliere le drupe da cui si estraggono i chicchi prodigiosi. Una vocazione al saliscendi già implicita del resto nel cognome Hill, «collina»; e c’è forse un’ ironia della sorte nell’intrecciarsi del destino di James con quello di una coppia d’importatori dal cognome molto simile al suo: i fratelli Austin e Reuben Hills. Sfruttando la crescente dipendenza dei coltivatori salvadoregni dal mercato americano, essi spiegarono a Hill come volevano che il caffè fosse preparato. «E quando James Hill si impegnò a rispettare queste specifiche,» scrive Sedgewick «la Hills Bros. acquistò l’intera produzione (…) del 1933-34, oltre due milioni di libbre, a 9 centesimi la libbra, circa un terzo dei prezzi di cinque anni prima». In questo modo i due fratelli riuscirono a estendere la «Hills Bros. Coffeeland», come chiamavano il loro territorio di vendita, dalla costa del Pacifico al Midwest, per poi giungere all’East Coast e da lì al mondo.
Molta acqua era passata sotto i ponti da quando, secondo la leggenda divulgata nel XVII secolo da un frate maronita, un branco di capre sovreccitate per aver mangiato certe bacche d’una pianta importata secoli prima da cristiani provenienti da Caffa, in Abissinia, aveva condotto alla scoperta del frutto da cui si estraeva la «bevanda magica».
Malgrado la perplessità sui suoi effetti riguardo alla salute, ben presto le doti energetiche del caffè furono universalmente magnificate, e dall’Oriente musulmano esso si diffuse nella vecchia Europa. «Svegliarino è per l’amore,/più potente del caffè»: così il Dulcamara di Donizetti reclamizzava il suo fraudolento elisir. Ma in ballo non c’era solo l’incremento della potenza amatoria. Era ormai chiaro che il caffè dava «qualcosa in piú alla capacità lavorativa del corpo umano indipendentemente dai processi e dai tempi dell’alimentazione e della digestione, qualcosa che va oltre ciò che la scienza dell’energia e le leggi della termodinamica ritengono possibile».
Con la rivoluzione copernicana della scienza moderna, l’energia non veniva più considerata, alla maniera di Bergson, una qualità vitale delle persone; era invece una forza legata alla capacità di produrre lavoro. Ma questo «vangelo dell’energia» fondava la sua mitologia sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, fino alla schiavitù.
La seconda parte di Coffeeland è un simpatetico regesto che testimonia «di che lacrime grondi e di che sangue» l’epopea della bevanda stimolante che oggi si identifica con la pausa rigenerativa del coffee break. Incrociando vicende umane a testimonianze documentali e cronache giornalistiche; accumulando una mole poderosa di dati sociologici, economici, statistici, Sedgewick (che insegna storia alla City University of New York) ha trasformato un capitolo di storia del cibo in una ricognizione a 360 gradi, ricostruendo snodi cruciali e sanguinari del passato salvadoregno, dominato dalla lobby delle «quattordici famiglie» dei grandi piantatori di caffè (James Hill ed eredi in testa): dalla mattanza di indios del 1932 sotto l’egida del generale Martinez all’uccisione nel ’79 dell’arcivescovo Romero - che aveva convinto i rapitori a liberare Jaime Hill- da parte dell’Unión de guerreros blancos dell’arcireazionario maggiore D’Aubuisson. E non illudetevi: nella disamina di Sedgewick, neppure l’odierno commercio «equo e solidale» si salva. Troppi fantasmi gravano ancora sulla «tazzulella ’e cafè» che nella celebre commedia di Eduardo surrogava la poesia della vita.