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 2021  aprile 17 Sabato calendario

Mauro Covacich e la corsa. Intervista

«Quasi sempre si comincia a correre per dimagrire. Si corre contro il corpo, per sottometterlo al proprio volere. Il corpo tenta di conservare i grassi, è filogeneticamente concepito per questo. All’inizio la mente lavora sul corpo, a dispetto del corpo». Parole dirette, lineari, precise. A dirle è Mauro Covacich, lo scrittore triestino che intorno alla corsa ha ideato un mondo. D’altra parte l’aveva già anticipato con A perdifiato, il romanzo che ha dato vita al cosiddetto «Ciclo delle stelle», anticipando i temi di una poetica che coniuga astratto e materico, nello sforzo di superare la dicotomia tra realtà e finzione. Per Covacich correre è soprattutto una faccenda estetica, semplicemente per il fatto che «resistere alla più alta velocità possibile è la cosa più bella che una mente umana possa produrre», questo scriveva nel romanzo del 2003. Ora completa il pensiero esaminando la corsa anche nel suo aspetto desacralizzante (quella sul tapis roulant per esempio), ma che ha sempre a che fare con una lotta con se stessi, con la sfida, con la morte e con un’idea di fuga rispetto a quel corpo che pensa.
Insomma il corpo ha desideri ma non può mentire. È questo che appassiona?
«Coloro che vengono per così dire punti dalla corsa e non sanno più farne a meno entrano in una nuova fase in cui la mente diventa il sistema del corpo che pensa, ovvero la rete in cui l’avampiede, il cuore, il glucosio, i desideri, la memoria, tutto l’organismo dialoga con tutto se stesso e con tutto ciò che dall’esterno modifica o può modificare se stesso. È il momento in cui la corsa diventa una pratica introspettiva, una forma di ascolto e disciplina interiore».
"Sulla corsa" è anche un libro che, attraversando secoli di letteratura, ci dice come corsa e scrittura abbiano un’origine muliebre. Ce lo spiega?
«Chiunque corra è sotto la stella di Venere. Anche il maratoneta più virile compie nella corsa un’esperienza femminile. Il concetto stesso di resistenza evoca un assedio, un’invasione. A vincere la prima corsa nella storia della letteratura occidentale è, guarda caso, Ulisse, l’eroe meno fallico, quello che si sottrae, che si traveste, che vince anche quella prima gara, nell’Iliade, sapendo gestire le proprie energie grazie alla sua dote, la metis, che non è solo astuzia ma anche l’arte di trattenersi, di sapere aspettare».
La corsa non ha un habitat preciso, lo stesso bordo strada di cui parla all’inizio rappresenta bene questo senso di sradicamento. Lei ha iniziato a correre a 11 anni e ha smesso a 51. Ma si può smettere, mentalmente, di correre?
«Ho smesso di gareggiare per ragioni di salute. Da un paio d’anni ho ripreso a corricchiare senza obiettivi agonistici. Lo faccio perché non c’è niente che mi dia maggiore senso di libertà che andarmene in giro sul bordo strada. Correre su strada è un piacere senza pari. Ovviamente non lo si può fare in zone molto trafficate, ma non c’è pista di atletica o parco pubblico che infonda la medesima sensazione di apertura».
Sa che durante la lettura, soprattutto lì dove il ritmo fisico pare esplodere, viene in mente "Nella colonia penale" di Kafka? Lo sforzo, il dolore, il rilancio del limite, una scrittura che pare incisa sul corpo…
«È interessante questa suggestione a proposito di un autore che, pur non essendo mai citato, è il faro di questo come di ogni mio altro scritto. C’è un elemento autolesionistico in chi diventa un appassionato di corsa. Evidentemente non c’è solo la sensazione di stare meglio, il massaggio mentale delle endorfine eccetera… c’è anche il piacere di imparare a fare i conti con la sofferenza, di cercarla, di leggerla sul proprio corpo. A differenza del racconto di Kafka, qui si tratta di una punizione autoimposta, in fondo più tollerabile».
A proposito di scrittura, il libro ci restituisce anche la sua performance "L’umiliazione delle stelle", la sincerità del corpo rispetto a quella della penna. Cosa l’ha spinta a quell’esperienza con tutti i rischi che comportava?
«Ho sempre pensato alla scrittura come a una forma di arrischiamento totale. Sin dall’inizio per me scrivere è stato mettermi in gioco senza protezione e senza rete. Per molti aspetti il mio lavoro custodiva una vocazione performativa che poi si è rivelata a partire da Prima di sparire, uscito nel 2008. Dire la verità. C’è un luogo dove sono più vero? Nell’oscenità, nella colpa forse (ecco tornare Kafka). Se scavo lì, magari trovo ciò che cerco».
Quindi ha lavorato in quella direzione?
«Sì. Alla fine però non ho trovato la verità, bensì il suo racconto. C’è sempre uno slittamento tra chi dice io sulla pagina e chi dice io nella vita. La questione però non mi ha abbandonato per anni, finché ho pensato che il vero inghippo fosse la scrittura e di poter provare a scrivere con il corpo. Da qui l’idea di indossare i panni del protagonista di alcuni miei romanzi e compiere in prima persona la sua performance: correre la distanza della maratona (42.195 metri) sul tapis roulant. L’intento era desacralizzare la maratona, esporsi a pubblico ludibrio. La corsa sul posto, oltre a essere innaturale, è l’esemplificazione dell’inanità di questo e di ogni altro sforzo di smascheramento.
Che ne pensa del dibattito che da anni perseguita gli scrittori? Mi riferisco all’idea di letteratura e verità veicolata dalle categorie fiction, autofiction e altre ancora. Non trova che un autore debba (anche) mentire per raccontare una verità?
«Dipende da come la si mette: che si debba mentire per dire la verità è per molti un ottimo pretesto per giocare sulle ambiguità di una possibile sovrapposizione tra io narrante e autore, per questi scrittori la non perfetta congruenza tra il personaggio a cui prestano il nome e se stessi è una risorsa narrativa, chiamano il loro protagonista con il proprio nome e gli fanno compiere ogni genere di peripezia. Per altri autori quella non perfetta congruenza è un problema, che vivono e mostrano sulla pagina come tale. Non solo nella scrittura, anche nell’arte. Penso a Philippe Forest e Annie Ernaux, ma anche a Sophie Calle, Marina Abramovic, Werner Herzog. Io mi sento più vicino a questi ultimi».
Da "Storia di pazzi e di normali" a "Sulla corsa", Trieste si mostra in diverse forme, due i temi fondamentali: la follia e il confine, insomma in qualche modo c’è sempre l’idea di andare oltre…
«A Trieste ho cominciato sia a correre che a scrivere. Ormai da anni ci torno solo in vacanza, ma resta la mia città interiore. Trieste è un’idea della mente, è giusto immaginarla come un limite e al tempo stesso la continua sperimentazione, oserei dire il crash test, di questo limite. Serve un confine per sconfinare. Ma il confine è anche la condizione di ogni forma».
Quali sono i suoi modelli letterari?
«A quelli già citati, aggiungerei Coetzee, il lavoro sull’autobiografia compiuto da Canetti e da Bernhard, la Simone Weil dei Quaderni, l’elenco sarebbe lungo… Ma questo libro in particolare è debitore nei confronti di Staccando l’ombra da terra di Daniele Del Giudice. Del Giudice non vola più, ma è stato un appassionato pilota e in quel libro ha raccontato l’esperienza del volo come nessun altro. Io ho tentato di imitarlo raccontando l’esperienza della corsa».
Nel libro sfilano diversi campioni, tra cui Haile Gebrselassie, che colpisce per la sua genuinità. Com’è stato il vostro incontro?
«Ho avuto la fortuna di incontrare in situazioni più o meno casuali grandi campioni come Orlando Pizzolato e Stefano Baldini, Gebrselassie invece sono andato a cercarlo apposta, ormai quasi vent’anni fa, ad Addis Abeba. All’epoca, oltre a essere detentore di mille record e medaglie olimpiche, era l’uomo più famoso di Etiopia e non è stato semplice riuscire a parlargli. Poi però mi ha dedicato un pomeriggio. Più le mie domande erano filosofiche e più lo facevano ridere. Per lui correre era seguire le tabelle di allenamento, sciropparsi duecento chilometri alla settimana e divertirsi in gara, cioè vincere…».