La Stampa, 17 aprile 2021
Il riso italiano sfonda in Cina
«L’unico problema è che a noi il riso piace un po’ al dente, mentre i cinesi lo preferiscono più cotto...». Maria Grazia Tagliabue sorride, nel giorno in cui il riso italiano, con le varietà da risotto, si lancia alla conquista dei 50 milioni di potenziali clienti dell’alta borghesia cinese, attratti da simboli del Made in Italy: le borse Gucci, il Prosecco, il prosciutto di Parma e adesso anche i chicchi di riso.
Tagliabue è la presidente della Sp di Stroppiana, centro agricolo nel cuore della Bassa Vercellese, una delle 17 aziende dell’Italia centro settentrionale che da oggi potranno esportare verso Pechino il Carnaroli, il Baldo, l’Arborio, il Sant’Andrea e il Vialone Nano, le qualità di riso che in questa terra che lavora ogni anno 70 mila ettari di risaie per una produzione che negli anni migliori tocca le 80 mila tonnellate di risone.
«Cinque anni fa avevamo ospitato a Stroppiana alcuni funzionari dell’ufficio per gli Affari esteri di Pengzhou, una città della provincia. Non erano venuti per fare turismo, anzi. Avevano grandi pretese: voleva conoscere tutti i vari processi di trasformazione del risone in riso bianco, e poi ancora le varie fasi della lavorazione del chicco e la pulizia. Lo hanno fatto qui, e in tutte le aziende che avevano chiesto l’autorizzazione a esportare in Cina».
Dopo il parere positivo degli ispettori cinesi, è partito un negoziato che ha coinvolto ambasciate e ministeri, oltre naturalmente all’Ente Risi e all’Associazione Industrie risiere italiane.
Ieri la fumata bianca del ministero delle Politiche Agricole: tutte le richieste sono state accettate. L’obiettivo ora è di accaparrarsi una fetta del mercato cinese, il più grande del mondo per il riso: 150 mila tonnellate all’anno, su un totale di 500 mila. Con una particolarità: la Cina non ha mai sperimentato le varietà da risotto che, di fatto, sono un’esclusiva italiana.
«È una bella opportunità – commenta Tagliabue –, anche perché potremo raggiungere una fascia di cittadini altolocati e di ristoratori che già amano i prodotti italiani d’eccellenza». Un’occasione incredibile solo pochi anni fa, per questa zona dove il riso ha una tradizione secolare. La stessa Sp, pur essendo nata soltanto nel 2000, unisce due famiglie di lunga tradizione risicola: gli Scalafiotti e i Pastore, che hanno unito parentela ed attività imprenditoriale. Pur mantenendo una conduzione familiare dell’azienda, la Sp ha avviato una produzione dedicata al mercato globale. L’azienda si è specializzata nella lavorazione e nella vendita di riso sfuso e confezionato per conto terzi, oltre alla commercializzazione di linee di prodotto con il suo marchio. La materia prima, cioè il risone, proviene da risicoltori del territorio vercellese ma anche da fuori provincia.
«Per questo la Cina – dice la presidente – è una grande possibilità non solo per le aziende, ma anche per gli agricoltori, che potranno far conoscere il loro Carnaroli e il loro Arborio dall’altro capo del mondo. In questo modo possiamo conquistare classi sociali elevate con il cibo e l’alimentazione tradizionale dell’Italia. E sarà un successo se riusciremo a raggiungere anche solo una piccolissima parte della popolazione totale della Cina, che ha pur sempre un miliardo e mezzo di abitanti».
La stessa opportunità è concessa ad altre quattro aziende vercellesi, quattro di Pavia, tre di Verona, due di Alessandria e Novara, e altre industrie risiere tra Modena, Mantova e Ferrara. «Siamo orgogliosi del risultato raggiunto – commenta Paolo Carrà, presidente di Ente Nazionale Risi, anche lui vercellese –, che permetterà al nostro riso italiano di giungere su un mercato in cui l’agroalimentare made in Italy sta registrando notevole interesse».