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 2021  aprile 17 Sabato calendario

James Hansen si confessa

James Hansen è un americano che vive e lavora in Italia dal 1975, quando arrivò per fare il vice-console Usa a Napoli. Negli anni 80, dopo un interludio come corrispondente per l’estero da Roma, il salto nella comunicazione di impresa: prima in Olivetti, poi in Fininvest, quindi in Telecom. Il che ha significato lavorare, tra gli altri, con l’Ingegnere, Carlo De Benedetti, e il Cavaliere, Silvio Berlusconi, due dei protagonisti dell’economia, della finanza, della politica italiana. Da anni invia a oltre 10mila persone dell’élite internazionale italiana la sua Nota Diplomatica, un caleidoscopio di notizie dal mondo, approfondite con metodo, e che sono un rifugio per chi voglia superare l’informazione mordi e fuggi di Twitter. Delle sue note settimanali ne sono già uscite oltre 330. Ora una selezione delle migliori è stata raccolta in un libro: Nota Diplomatica, pratiche innaturali, per i tipi della Biblion Edizioni.

Domanda: Hansen, bisogna chiedere, perché «pratiche innaturali»?

Risposta. Beh, ammetto che sia in parte una sorta di «esca» per attirare i lettori, ma c’è anche un preciso senso compiuto. Per molti millenni i rapporti tra stati, regni, città e clan sono stati regolati con la violenza. Poi, con le armi da fuoco, siamo diventati troppo bravi a fare la guerra. Cominciava a presentare costi umani e anche economici insostenibili e fu necessario inventare la diplomazia come «corpo di Stato» per combattere con le armi della pace, una pratica davvero innaturale vista la storia umana. È una lezione che stiamo ancora tentando di imparare.

D. In un’intervista che mi concesse anni fa per questo giornale, disse che la Nota, preziosa e gratuita, era un po’ un omaggio all’Italia

R. È vero, e non era una «sleppata» ai lettori. Mi sono trovato bene in Italia, probabilmente meglio di molti italiani, e provo gratitudine per questi decenni. Vivo qui da oltre 40 anni e ormai sono «fisso». La gente mi chiede perché non prendo la cittadinanza italiana…

D. Già, perché?

R. Perché nasco americano e lo resto culturalmente. D’altronde non è che, in quattro decenni, diventi italiano, diventi semmai molto meno americano. Questo è successo. Al punto che faccio fatica a capire pienamente molte cose che succedono nel mio paese.

D. Del tipo?

R. Oh, prendiamo fenomeni come Donald Trump o come Joe Biden. Non mi spiego appieno l’estrema polarizzazione del Paese, la battaglia in corso fra le metropoli e lo sterminato interno degli States. A sorpresa, i democratici oggi sono il partito della borghesia professionale e arricchita delle grandi città, e i repubblicani invece del resto del Paese, di quella parte che non è diventata ricca con Silicon Valley o fenomeni simili. Per tornare al Trump-Biden…

D. Per tornare all’ultima sfida presidenziale?

R. Basta guardare la distribuzione geografica del voto. Le ricche zone metropolitane delle due coste formano una sorta di «crosta dem» esterna che, a parte una manciata di grandi centri sparsi nell’interno come Chicago o Denver, circonda un vasto territorio molto meno ricco e perlopiù repubblicano.

È un rovesciamento bizzarro per chi, come me, è cresciuto pensando a una posizione automatica dei due partiti. Vede, storicamente furono i Repubblicani (il partito allora dei ricchi) a condurre per esempio la battaglia contro la segregazione razziale. Già Abramo Lincoln, il liberatore degli schiavi fu repubblicano (come lo fu anche Martin Luther King del resto) mentre i democratici erano in non poca parte asserragliati nel vecchio Sud, assai conservatore in fatto di razza. Oggi è come il giorno fosse diventato notte…

D. Anche in Italia è un po’ la storia del Pd, a volte accusato d’essere il partito dei Parioli, nel senso di ceti abbienti.

R. E nel mio Paese emerge una sorta di pensiero unico, come accadeva in Italia, anni fa: se sei in carriera, cioè, devi prendere un certo tipo di posizioni. Come quando qui da voi, la gente andava di nascosto a comprare il Giornale che, all’epoca, era l’unico giornale non dico conservatore ma certamente non di sinistra. Negli States è così, ormai i giornali che rappresentino le vedute del mondo repubblicano, non dico di Trump, sono rarità.

D. Beh detta così, lei descrive l’Italia come un’avanguardia quasi. Però questo fenomeno del cancel culture, fino alla poetessa nera che ha preteso di essere tradotta da una nera, nasce da voi. E temo che finirà inevitabilmente per produrre nuovo razzismo, non le pare?

R. Sta accadendo già. Ci sono violenze che, come Paese, non avevamo più conosciuto da molto, tipo Antifa versus Suprematisti o di quelli che tirano giù le statue di Cristoforo Colombo, reo d’aver scoperto l’America.

D. Ma che spiegazione dà del fenomeno Trump?

R. Penso che gli americani delle grandi praterie, il centro del Paese, le zone post-industriali non abbiano beneficiato in niente della estrema prosperità degli ultimi anni, e poi si sono sentiti additare come burini e razzisti, mentre il Governo si spendeva a favore delle minoranze etniche. Giova ricordare che il 60% degli elettori sono bianchi ma non tutti dei ricconi che girano in Cadillac. C’è un grande risentimento, si sentono abbandonati, peggio, disprezzati.

D. È un’analisi diffusa ma non vedo, d’altra parte, nessun correttivo in vista: si aspetta che l’elettorato di Trump si redima. Nessuno che pensi a riconquistarne i cuori…

R. Me lo spiego con un fenomeno che abbiamo visto qui in Italia: la campagna elettorale permanente, che tratta tutto come in una gara di popolarità e non come l’agone dove si scontrano politiche che abbiano anche un costo. D’altra parte, questo metodo, da PR, diciamo, dello stare sempre sui media, funziona, e i candidati lo usano.

D. Si danno molte colpe a Internet.

R. Ma la Rete rispecchia quello che prima semplicemente non veniva rispecchiato. Non inventa nulla. Ora possiamo sentire le chiacchiere da bar senza dover prendere un caffè…

D. Invece lei e la Nota?

R. Io cerco di incuriosire il lettore, anche con storie non immediatamente note, provo a carpirne l’attenzione, dandogli una serie di elementi per inquadrare un problema, per poi lasciare a lui le conclusioni. Tanto io non appartengo alla gamma del pensiero politico italiano. Non sono né di sinistra né di destra in termini nazionali. Noialtri poi abbiamo fatto la guerra sia con i fascisti sia coi rossi…

D. E perché si occupa tanto di passato?

R. Fuggo come una lepre davanti alle cronache: chi vuol sapere cosa accade ora in Mozambico, che legga il giornale o guardi la televisione.

D. Il punto qual è, allora

R. Una banalità. C’è davvero molto poco di nuovo sotto il Sole. Può esser utile chiedersi cos’è successo l’altra volta che si è provato ad imporre questa o quell’altra politica stramba, anche se la tecnologia ha rimescolato un po’ le carte.

D. O meglio?

R. O meglio ora possiamo fare i nostri errori più in fretta e su una scala maggiore, ma la gente è sempre mossa dalle stesse considerazioni umane. La fesseria trasmessa con i segnali di fumo non diventa più intelligente scritta in un messaggio email. Apparteniamo a un flusso di comportamenti che non so se chiamare «natura umana», ma che vediamo tornare regolarmente in ogni epoca.

D. Beh questo l’aveva detto un italiano già secoli fa: Gian Battista Vico. Facciamo un esempio attuale?

R. Vico capita a pennello. Oggi in Italia lei ed io abbiamo parlato di lui e del suo pensiero. Diciamo che non capita ogni giorno. La storia è comunque piena di lezioni: insegna per esempio che gli imperi deboli vengono immancabilmente smantellati. L’Ue, almeno nella visione dei suoi fondatori, doveva essere il Sacro romano impero rivisitato, mentre è solo un impero debole che non riesce a decollare: per motivi anche ovvii, come il nazionalismo, che non è stato inventato dai fascisti, ma che esiste come pulsione umana.

D. Rileggendo alcune Note, mi ha molto colpito quella relativa alla notizia, resa nota in anni recenti, della Regina Elisabetta che, nel 1984, aveva preparato un discorso alla nazione nel caso si fosse reso necessario annunciare un attacco nucleare sovietico. Noi viviamo a grande velocità e poi la storia passa a un livello che nemmeno sappiamo…

R. Sì, le persone a volte guardano a questi fatti come all’antichità: «Chissà com’è andata veramente» e tendono a liquidare. Eppure io ho un’età per cui mi ricordo le esercitazioni nucleari nelle scuole, durante la crisi di Cuba del 1962. Vivevamo a Seattle, non lontano dagli stabilimenti della Boeing, un ovvio bersaglio per i missili russi. Pensi, ci facevano esercitare mettendoci al riparo dei nostri banchi, contro le testate atomiche (ride).

D. Abbiamo memoria corta.

R. Lo stesso accade coi vaccini. Una delle cose che mi fanno imbufalire dei no vax è che io mi ricordo come stavamo combinati con la poliomielite: ogni estate scomparivano amici che non tornavano a scuola, alcuni finivano nel polmone d’acciaio. Il vaccino ci cambiò la vita. Prima la stagione estiva faceva paura.

D. Che idea s’è fatto di queste recrudescenze? Avendo questo sguardo retrospettivo sul mondo, e visto che la storia si ripete, a cosa dobbiamo questa idea? È il pensiero magico che ritorna?

R. C’è gente che teme le terribili onde elettromagnetiche emesse dai televisori e guarda i programmi col binocolo. Esiste davvero in commercio l’acqua minerale «senza glutine». C’è infatti una gamma estesa di prodotti «senza» - senza zucchero, senza sale, senza olio di palma, senza conservanti - prodotti venduti per ciò che non contengono. Credo tutto nasca da una grande sfiducia nelle fonti d’autorità: la fede, i governi, la saggezza dei nostri vecchi. Una volta negli Stati Uniti c’era comunque fiducia verso il Governo, poi con il Vietnam si capì che potevano anche barare. Quella verginità mentale non si recupera. Sono fatti che hanno anche spinto fenomeni come la contestazione giovanile - il nostro ’67, il vostro ’68 - che ha molto seminato, nel tempo, idee che sono ancora correnti.

D. Non ci fidiamo più, è vero. Però le segnalo una cosa in controtendenza in Italia: la Cia che diventa fonte degli intellettuali di sinistra e influencer, come nel caso delle critiche a Matteo Renzi per la sua conferenza in Arabia Saudita. Una volta la Cia era il demonio.

R. È vero (ride). La sfiducia però permane e secondo me c’è un altro elemento: per molti millenni in Occidente abbiamo avuto un garante: la fede. Oggi per molti è venuta meno. E non è solo una questione di laicizzazione, che è forse più sintomo che causa. Non c’è più roccia su cui siamo disposti a costruire le nostre vite. Le nostre esistenze corrono veloci. C’è un’incertezza cosmica e, per proteggersi, diventiamo scettici automaticamente.

D. Qual è la Nota diplomatica che le ha dato più soddisfazione?

R. Le note sono ormai tante, al punto che, scrivendole, devo sincerarmi di non aver già toccato i medesimi argomenti in passato. Comunque, l’altra settimana sono rimasto contento di aver parlato di una decisione della Corte europea che spiana la strada a un divieto alla macellazione rituale dei bovini, in pratica mettendo fuori legge la macellazione halal degli islamici da una parte e quella kosher degli ebrei dall’altra. Delizia gli animalisti, offende i credenti. I lettori si sono divisi equamente tra i «non c’è più religione» e «il benessere degli animali conta più dei rituali religiosi d’altri tempi». Perfetto, è così che deve essere. Non predico, lancio il sasso...

D. Torniamo alla diplomazia, visto che Sergio Romano ha scritto una bella prefazione al libro ricordando i suoi esordi diplomatici in Italia. Ancora poche settimane fa, con la morte tragica dell’ambasciatore Luca Attanasio, ci siamo accorti che la diplomazia c’è sempre, anche in questa epoca ultra-disintermediata. Ce n’è ancora bisogno?

R. Io ne sono convinto. E, forse strano a dirsi, in modo particolare di quella ufficiale, governata da procedure e formalismi. Crea una griglia sulla base della quale gli Stati possano dialogare quando invece vorrebbero menare le mani. Ce n’è bisogno perché i Governi hanno grossa difficoltà a parlarsi seriamente: le pose che la politica deve assumere davanti al pubblico, i proclami che deve sparare sempre di più per questa tendenza «public relations» che le dicevo prima, sono una cosa, la realtà percorribile è un’altra.

D. Cos’è cambiato?

R. Lavoravo nel Dipartimento di Stato di Kissinger ed è in quell’epoca che gli ambasciatori vengono trasformati in uomini della comunicazione, di gente che andava a inaugurare, che presenziava agli eventi, mentre il potere decisionale stava tutto là, a Washington. Poi Il mondo si è complicato. La storia non è finita, come pensava Francis Fukuyama, non c’è stato il trionfo della economia liberale, della società aperta, dei commerci internazionali. Tra l’altro l’Italia ha un grande scuola diplomatica: questo Paese riesce a boxare in una categoria di peso che non è la sua, vale a dire a svolgere un ruolo internazionale superiore alla forza geopolitica del Paese. Ne ho una grande ammirazione. Non parlo dei ministri, intendiamoci, ma dei diplomatici di professione.

D. E oggi chi è il moderno diplomatico? Un uomo colto, conoscitore dei mondi in cui va a lavorare?

R. Certo, ci vorrebbe l’uomo - o la donna - rinascimentale, ma non è tanto una questione di sapere che forchetta usare a tavola. Diciamo quello che non è. Davanti allo svuotamento, con la velocità dei trasporti e delle comunicazioni, la reazione è stata di diventare molto accademici. Importa invece che il diplomatico abbia vissuto, abbia avuto altre esperienze e infatti le generazioni di diplomatici che vengono dalle guerre hanno fatto grandi cose: sapevano che i conflitti erano cose tremendamente serie. La diplomazia è un corpo dello Stato che, come l’esercito e l’intelligence, serve a combattere. Carl von Clausewitz diceva che la politica è il proseguimento della guerra con altri mezzi, per certi versi anche la diplomazia lo è.

D. Oggi il proseguimento sono le guerre informatiche, mai dichiarate, ma capaci di essere devastanti. Eppure, nei giorni scorsi, a Roma, abbiamo assistito, come non accadeva da anni, all’arresto della presunta spia italiana e all’espulsione di quelle russe. Che ne pensa?

R. Ah, il caso Biot. Lo strano è che non c’è niente di strano. Queste cose sono il pane quotidiano del controspionaggio, episodi quasi comuni. Il curioso è che si è deciso di darlo in pasto all’opinione pubblica, Dio sa perché, forse per dire ai russi che stavano esagerando. Mi è piaciuto il dettaglio patetico, il pagamento misero di 5mila euro per tradire il proprio paese. Faceva venire in mente i 7 milioni di lire trovate nelle mutande di Mario Chiesa all’inizio di Mani Pulite – il suo cachet per tradire i vecchietti del Pio Albergo Trivulzio su una questione di carta igienica.