il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2021
Elogio di Paolo Nori
“A me, ci ho messo degli anni a capirlo, non piace divertirmi, a me piacciono le cose che fanno piangere, come la letteratura russa e le partite del Parma”. Ecco la cifra di Paolo Nori, classe 1963, autore capace di appendere un fiocco di umorismo a ogni frase che scrive o pronuncia.
Del resto, nel 1999 l’inizio dell’inizio della sua parabola di scrittore è già una dichiarazione di poetica (incipit di Le cose non sono le cose): “Mia nonna Carmela si chiamava Carmela”. Il suo stile, che vanta svariati tentativi di imitazione, riproduce il parlato con sproloqui che si avvitano su se stessi in un gorgo che risucchia punteggiatura e congiuntivi. Una lingua finto sgrammaticata, zavorrata da iterazioni e anacoluti, presa in prestito dalle conversazioni afferrate nei bar, nelle sale d’attesa, nei tram. Tra gli esempi possibili uno scampolo di prosa da La vergogna delle scarpe nuove: “Il giorno dopo prima di partire penso Vado là in bicicletta o senza bicicletta? Se vado là in bicicletta poi me la rubano, poi penso che se non la uso cosa l’ho comprata a fare, se me la rubano almeno la usa qualcuno, e allora alla fine poi vado là in bicicletta”.
Nella sua quarantina di opere Nori è sempre al centro della scena (spesso indossa le maschere di io narranti fittizi come Learco Ferrari o Ermanno Baistrocchi) tanto che si potrebbe parafrasare la celebre battuta di Risi su Moretti: “Paolo, spostati e fammi leggere il libro”. La scrittura è una vocazione tardiva, che lo prende in ostaggio dopo i trent’anni. Lavora nei cantieri di un’impresa. Si licenzia, si laurea in Lingua e Letteratura russa, ritorna a lavorare. Poi si domanda: “Ma perché non provi a guadagnarti da vivere con qualcosa che ti piace?”. Si mette a scrivere “per disperazione” e da allora è una slavina di romanzi (tra i più fortunati Bassotuba non c’è e I malcontenti), traduzioni, corsi di scrittura, docenze all’università. Ogni estate organizza viaggi per gli appassionati di letteratura russa, in un percorso itinerante che tocca i luoghi descritti nei classici. La sua compagna di vita – Togliatti come lui la chiama perché si sente sempre “il migliore” – è fatalmente laureata in Storia dell’Unione Sovietica. Si sono lasciati e poi ripresi, battezzati dalle perorazioni di Antonio Pennacchi, l’autore di Canale Mussolini: “Tu adesso vai da Togliatti, ti metti in ginocchio le dici: Togliatti, perdonami è tutta colpa mia torniamo insieme”.
Un’esistenza consacrata alle pagine in cirillico dalla quale con tutta evidenza Nori trae la sua linfa comica e grottesca (che non ha subito contraccolpi nemmeno nel 2013 quando, investito da un motorino, lottò per giorni tra la vita e la morte). Questo passaggio tratto da La grande Russia portatile è emblematico: “Una volta ero a San Pietroburgo, e dovevo andare in biblioteca, e aspettavo il filobus numero 10, e pioveva, e quando il filobus è arrivato sono entrato e ho visto che sul soffitto, del filobus, c’era un buco, e pioveva dentro. Allora loro cosa avevano fatto? Avevano fatto un buco anche sotto, sul pavimento, alla stessa altezza di quello che c’era sopra, e la gente era dappertutto tranne che in quel cerchio lì di mezzo metro di diametro, e l’acqua entrava da sopra e usciva da sotto, e il filobus andava, e per me quella è la Russia”.
In Sanguina ancora, fresco di stampa per Mondadori, che mescola gli eventi capitali della biografia di Dostoevskij a suoi personalissimi spezzoni di vita, Nori confessa: “Delitto e castigo l’ho letto che avevo forse quindici anni, son passati ormai quarantun anni e, di quel momento io mi ricordo tutto; mi ricordo la stanza dov’ero, mi ricordo l’ora del giorno, mi ricordo lo stupore di quello che stava succedendo”. Quel libro pubblicato 112 anni prima, a tremila chilometri di distanza, apre una ferita che non smette di sanguinare. Nori non perde la sua vena esilarante. Per restituire la figura di un famoso giornalista russo dell’epoca, capace di determinare la fortuna di Dostoevskij, Nori azzarda un parallelo e scrive che “era come Marco Travaglio nell’Italia di oggi”, con la differenza che anziché occuparsi di Berlusconi e Renzi, il giornalista russo, tale Belinskij, aveva a che fare con Puskin, Gogol, Turgenev, Goncarov.