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 2021  aprile 16 Venerdì calendario

Una nuova Arca di Noè

La cattiva notizia: solo il 2,8% delle terre emerse (senza calcolare l’Antartide) può essere considerato «intatto». La buona notizia: la percentuale potrebbe rapidamente aumentare al 20% se venisse reintrodotta la fauna originale. Basterebbero poche specie, da una a cinque, per far riacquistare a territori poco compromessi dall’impatto umano (industrie, agricoltura, sfruttamento forestale e minerario) e che hanno perso nel tempo i loro animali tipici, l’integrità ecologica. È questo il risultato di uno studio apparso ieri su Frontiers in Forests and Global Change. 
«L’esempio di maggiore successo è la reintroduzione del lupo nel Parco di Yellowstone», spiega Daniele Baisero, ricercatore italiano di BirdLife International e secondo firmatario dell’articolo. Nel parco americano i lupi sono tornati nel 1995 dopo 69 anni di assenza. La loro reintroduzione ha permesso di tenere sotto controllo la popolazione di cervi, la loro principale preda, e ciò ha portato al miglioramento in pochi anni dell’intero ecosistema. Una ricerca dell’anno scorso aveva già dimostrato che, senza gli interventi di conservazione della natura, il tasso di estinzione di mammiferi e uccelli sarebbe stato 3-4 volte superiore a quello, già elevato, degli ultimi 30 anni. Ora però il gruppo di Baisero fa un passo in più.
«Anche se è difficile dare una definizione univoca e precisa di cosa si intende con “habitat intatto”, le specie localmente estinte sono un fattore determinante per riportare una zona nelle sue condizioni originali. Poi bisogna vedere se a livello locale è fattibile – prosegue il ricercatore —. Oltre al lupo di Yellowstone, la reintroduzione dell’elefante in molte zone dell’Africa avrebbe un impatto molto positivo. L’elefante e altre grandi specie come il leone o il bufalo svolgono ruoli importanti all’interno di un ecosistema, per esempio limitano la diffusione di altri animali oppure favoriscono la dispersione dei semi. Purtroppo questi grandi animali sono i primi a sparire».
Togliere una specie altera, a volte in modo irreparabile, un complesso di controlli vicendevoli a diverso livello dell’intera piramide di animali e piante. Le specie che vivono in una determinata area e occupano una particolare nicchia ecologica sono il prodotto di milioni di anni di evoluzione per adattarsi a quell’ambiente. Se viene a mancare anche un solo elemento dell’insieme che forma quella nicchia, gli equilibri vengono alterati o possono saltare del tutto. 

Lo studio evidenzia le principali aree che sono rimaste più intatte: le foreste tropicali di Amazzonia e Congo, la tundra e le foreste boreali di Canada e Siberia, i grandi deserti africani. Altre aree, in apparenza intoccate come le zone interne dell’Australia, in realtà sono state stravolte dall’introduzione di specie aliene come gatti, volpi, conigli, capre e ratti. «Non vogliamo richiamare l’attenzione solo sul 2,8% intatto rimanente, tra l’altro molto meno di quanto appare osservando solo le foto satellitari senza andare sul campo», conclude Baisero. «Ciò che conta è il 20% che può essere migliorato. Salviamo quello che resta di buono, che in molti casi è gestito da popolazioni indigene, e recuperiamo quello che abbiamo danneggiato».