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 2021  aprile 16 Venerdì calendario

Intervista a Fink, numero uno di BlackRock

Il viso allungato, il sorriso pronto, gli occhi penetranti, Larry Fink, il Ceo di BlackRock, ha creato dal nulla il gestore di risparmio più grande del mondo: da ieri, giorno di conti trimestrali, ha annunciato che la gestione è salita a quasi 9.000 miliardi di dollari. Quasi quattro volte il Pil italiano. Fink mi accoglie via Zoom nel fienile della sua proprietà trasformato in ufficio remoto a North Salem, upstate New York. Oggi BlackRock è un colosso globale con 16,000 dipendenti, 30 uffici in 70 nazioni, clienti in 100 Paesi diversi e capitalizza 120 miliardi di dollari, contro i 50 miliardi di Blackstone.
Oggi Fink non è solo il più grande gestore di risparmio al mondo, è anche un “policy maker”, nel senso lato e migliore del termine. Fink è stato un precursore per l’introduzione di valori sociali nel mondo imprenditoriale e per una crescente trasparenza della “corporate governance”. Ma il suo punto di forza oggi è la richiesta di un adeguamento del mondo aziendale alle sfide ambientali. La sua lettera annuale agli amministratori delegati è la più attesa, stabilisce criteri di investimento, indica obiettivi di performance ambientale e di scelte a favore di tutti gli “stakeholder” (che includono lavoratori, impiegati, clienti, società civile) e non solo degli “shareholder” (gli azionisti).
L’obiettivo è quello di emissioni zero per il 2050.
È insomma uno dei leader di quel drappello di imprenditori e capitani d’industria che stanno cambiando il modello capitalistico americano come lo si conosceva solo 30 anni fa.
Con Bill Gates, ad esempio, Fink sta preparando un’iniziativa innovativa sul fronte energetico costruita attorno alla Breakthrough Energy Ventures, la proposta contenuta nel libro di Gates “Come evitare un disastro climatico”. Dovrebbero presentare insieme la settimana prossima il nuovo progetto che avrà un forte impatto climatico. Di certo, mi dice Fink, «il mondo sta accelerando, tutto sta accelerando, anche per quell’evento storico che è stata la pandemia”. Gli chiedo se il Covid non abbia messo a nudo le fragilità dell’Occidente e mi risponde col piglio che lo contraddistingue, quello dell’ottimista.
«Per me quello che è straordinario è il ruolo che la scienza e la tecnologia hanno svolto durante la crisi. Provi a immaginare se avessimo avuto il contagio dieci o dodici anni fa. Non avremmo avuto la tecnologia che ha consentito al mondo di andare avanti, di lavorare agevolmente in remoto, di usare il commercio elettronico per la distribuzione. Il 70% dell’economia ha continuato a funzionare nonostante l’isolamento.
Pensi alla bellezza degli esseri umani, come si adattano: abbiamo cambiato il modo di vivere, di lavorare, il modo in cui consumiamo l’informazione o i prodotti».
Cambiamenti che resteranno?
«Alcuni sì. La pandemia ha solo accelerato alcuni fenomeni. Non avrò più bisogno di andare a Singapore viaggiando per 30 ore per un incontro di un’ora».
Finirà la vita d’ufficio?
«No. E non solo per l’importanza di lavorare in contatto diretto. Lavorare in ufficio distingue il perimetro della vita privata da quella professionale».
Stavate spostando i vostri uffici a Hudson Yard. Fermerete i lavori?
«No, e non ridurremo gli spazi.
Stiamo inserendo più zone conferenze, più spazi comuni e forse il 30% resterà in remoto».
Quali sono i settori di cui ci si deve occupare di più?
«Turismo, alberghi, ristoranti. Un 30% della nostra economia ha sofferto molto dall’impossibilità di potersi aggregare. Dobbiamo rimettere in sicurezza quei settori e Biden l’ha capito».
Biden ha lanciato due piani di aiuti e investimenti infrastrutturali che potrebbero valere (inclusi anche quelli del 2020) il 50% del Pil. È anche una scelta strategica per aumentare lo statalismo e tenere il passo con la Cina che avanza?
«C’è una cosa di cui noi americani e europei dobbiamo essere orgogliosi: è stato il capitalismo a creare i vaccini con metodi rivoluzionari, non la Cina. I vaccini cinesi sono efficaci solo al 50 per cento. La forza del capitalismo non è apprezzata abbastanza».
Perché l’Europa è indietro? Forse perché non vara un progetto di stimoli grande come quello Usa?
«Non sono così convinto che l’Europa sia indietro. Ha molte aziende leader globali. La questione secondo me non è solo economica, ma culturale.
L’Europa, culturalmente, non sostiene quell’energia imprenditoriale che vediamo in America. Deve abbracciare l’idea di compensi elevati per chi produce, il concetto dell’individualismo. Molti giovani vengono in America per fare fortuna. Ci si deve chiedere perché non c’è questo senso di opportunità in Europa».
Mario Draghi è il nuovo presidente del Consiglio italiano, con una grande vocazione europea.
Potrà contribuire ad accelerare i tempi dell’integrazione bancaria e aiutare sul piano “culturale”?
«Per prima cosa devo dire che Mario Draghi è un amico. Credo che abbia fatto un lavoro fantastico come governatore della Bce. È un leader forte, determinato, un uomo di grande integrità sul piano umano e compassionevole. Qualità importanti per un politico. È un uomo che ha lavorato nel settore privato e ha dedicato la vita al settore pubblico. È rispettato in Europa e nel mondo, è una forza della natura, dunque ha le carte in regola per accelerare i processi di integrazione in Europa.
Ma non credo che Draghi e l’Italia possano svolgere quel ruolo da soli.
Dovrà lavorare con Macron in Francia e poi in autunno, con chi sarà il nuovo leader della Germania. L’Europa la si deve fare insieme».
Non mi ha risposto sul piano infrastrutturale di Biden.
«Biden ha fatto benissimo a vararlo.
Abbiamo un serio problema infrastrutturale in America, che sia un ponte o un aeroporto, le cattive condizioni rispetto a quel che si vede in Europa e in Asia sono evidenti. Non abbiamo una rete elettrica nazionale. E le divisioni sociali, le tensioni, crescono con la grande separazione fra chi ha accesso alla banda larga e chi non ce l’ha. Possibile che il piano di Biden da 3.000 miliardi di dollari sia troppo caro? Non lo so. Ma non credo che aumentare le aliquote fiscali per le aziende dal 21 al 28% cambi il panorama competitivo.
Abbiamo bisogno di un programma molto vasto, sia pubblico che privato che possa trasformare l’America».
C’è un rischio inflazione?
«Ci sono elementi concreti per preoccuparsi dell’inflazione. Le macrotendenze in corso - ad esempio una de-globalizzazione o la possibile riduzione di produzione off shore più a buon mercato - sono foriere di inflazione. Allo stesso tempo il progresso tecnologico continua a ridurre i prezzi. Sono due fenomeni contrapposti. A questo aggiungiamo i progetti di stimolo infrastrutturali che creeranno posti di lavoro ed eserciteranno pressioni sui salari. E dunque sì, sono sempre più attento al rischio inflazione. Se avremo l’inflazione al 2 al 2,5 anche al 3%, andrà bene. Se andremo sopra il 3% sarà inflazione cattiva».
È preoccupato dalla deglobalizzazione?
«Si. L’Europa sente l’immigrazione come una minaccia, ma è una minaccia che deriva dalla povertà.
Occorre saperlo. Sono per una globalità equilibrata. La globalizzazione aiuta a sollevare sempre piu’ gente dalla povertà e dunque ad avere un mondo più sicuro».
Cosa dovrebbe fare Draghi per l’Italia?
«Spero che Mario possa riaccendere l’orgoglio italiano, l’energia. In Italia avete un ottimo sistema universitario, ma i migliori se ne vanno. Quel che Mario - o qualunque altro politico – deve poter dire è: “Puoi avere le stesse opportunità in Italia”. Ma c’è un aspetto ancora più importante: cambiare il rapporto tra risparmio e investimento. Come si potrà instillare negli italiani e negli europei un ottimismo di lungo periodo? Se lungo un periodo di venti anni gli italiani avessero messo la loro liquidità al lavoro semplicemente investendo nell’indice Dax tedesco avrebbero fatto quattro volte quel che hanno avuto lasciando i soldi a dormire in un conto bancario».
Restando in Italia cosa mi dice di Unicredit di cui lei è azionista? È soddisfatto del cambio ai vertici?
«Conosco il nuovo Presidente Pier Carlo Padoan da molto tempo e Andrea Orcel da 25 o 30 anni! Auguro loro ogni successo. Ma la relazione è ottima anche con Banca Intesa e con l’intera comunità finanziaria, con Poste Italiane ad esempio. Siamo soddisfatti dell’andamento generale».
Lei dice di investire ma non è preoccupato dai rapporti ormai alti tra prezzi delle azioni e utili?
«Certo. Ma molti erano preoccupati dal rapporto tra prezzi del titolo Amazon e utili della società e non l’hanno comprata 20 anni fa. Occorre guardare al lungo termine, non agli alti e bassi del mercato».
Ha annunciato ieri una nuova soglia dei capitali che avete in gestione a quota 9.000 miliardi di dollari. Quando arriverà a 10.000 miliardi di dollari?
«Chi lo sa, forse un’ora fa…. Sa cosa?
Io credo che quel numero non sia importante. Gestiamo danaro per più gente di qualunque altro gestore al mondo. Più pensioni di chiunque altro, pensioni di gente comune, di pompieri, addetti sanitari, operai, poliziotti, funzionari statali, insegnanti. E se facciamo un buon lavoro aiutiamo il loro futuro. Sono anche loro a chiederci di svolgere un ruolo positivo nella società e di guardare al lungo termine. Oggi non lo fanno in molti. Noi continueremo a guardare lontano».