Eravamo in giro con Il costruttore Solness di Ibsen, una produzione impegnativa. Con me lavoravano otto attori e quattro tecnici. Un foglio paga intorno ai seimila euro al giorno, in parte assorbiti da me. Con la pandemia ho chiuso baracca e burattini, tutti a casa. Me compreso. E dire che la mia è una compagnia grossa, solida.
Pensi a quelle più piccole come sono messe».
Ma perché allora vede con scarso ottimismo le possibili riaperture? Non sarebbe un ritorno al lavoro?
«Cambierebbe poco in queste condizioni e io credo che ci vorranno un paio di anni per tornare alla normalità.Vede, il sistema del teatro e il modo in cui gli artisti lavorano, lo conoscono in pochi. C’è chi pensa che se il ministro dice “si apre domani”, domani noi attori siamo tutti in scena. Non è così. Il nostro lavoro è un carosello di variabili che si condizionano l’una con l’altra».
Lo può spiegare?
«Un conto sono i teatri, le grandi strutture pubbliche come il Piccolo, il Carignano, il Mercadante o le sale che ricevono finanziamenti: in questi mesi hanno continuato a produrre nuovi spettacoli, che presenteranno una volta riaperte le sale e anche se con la capienza ridotta fa niente, perché ci sono i finanziamenti. Ma questo discorso non funziona per gli attori e per le compagnie, che pure rappresentano un collante culturale importante, perché giriamo le grandi città, le grandi province, cioè il paese. Ad ogni rappresentazione noi percepiamo l’80 per cento circa dell’incasso. Se il pubblico è contingentato anche l’incasso è minore. Una compagnia così non regge. E sa qual è la conseguenza? ».
Quale?
«Che tutti noi siamo portati a ridimensionano le ambizioni artistiche: se prima uno spettacolo lo facevo con dieci attori scritturati, ora magari ne prendo solo due perché costa meno. E questo mi secca. Ammesso poi che io riesca a girare, perché già si sa che alla ripresa i maggiori teatri pubblici avranno tutte le loro produzioni da smaltire, quelle messe in magazzino in questi mesi».
Secondo lei cosa si dovrebbe fare per gli attori?
«I ristori ci sono stati. Ma va previsto un intervento del ministero della Cultura, minimi garantiti per le compagnie, dati ai teatri che le ospitano. Io non voglio cedere a fare solo i monologhi per risparmiare. C’è il rischio che non si facciano più per anni gli Shakespeare, i Pirandello… E poi penso ai giovani».
Cosa intende dire?
«Che l’attore è il vero precario del mondo lavoro italiano. Gli attori di teatro soprattutto, perché quelli del cinema e dell’audiovisivo hanno lavorato molto in questi mesi grazie a tutte le sicurezze sanitarie sui set. Gli attori di teatro invece hanno, di solito, contratti a termine e, per come si è evoluto il sistema, sono contratti che durano in tutto due, tre mesi, perché le tournèe si sono ristrette.
Siamo in pochi a fare date per cinque-sei mesi, la mia compagnia, quella di De Filippo, di Glauco Mauri… Quando ero giovane io, giravo anche sette — otto mesi. Ecco perché gli attori sono precari e oggi alla fame. Il tema del lavoro è centrale per il teatro».
Come vede gli artisti e i tecnici che stanno presidiando alcuni spazi teatrali in queste settimane?
«Proteste legittime, se restano una dimostrazione soft.
Mettono in campo un disagio reale, che c’è. E gli attori non possono fare di più che alzare la voce».
Lei che farà?
«Se la riapertura è con la sicurezza di girare e con una capienza adeguata, bene, altrimenti sto fermo».
Ha già pensato a uno spettacolo?
»Sto pensando a un testo di Nathalie Sarraute, Pour un oui ou pour un non (Per un si o per un no), una chicca su due amici che, per un’intonazione sbagliata di uno nel dire una frase, diventa un litigio. Ne ho parlato a Franco Branciaroli. Sarà uno spettacolo di sicuro insuccesso».
Come insuccesso?
«Non è La strana coppia di Neil Simon, o un testo popolare. È una commedia raffinata. Ma mi son detto che se si riparte ci vuole un po’ di coraggio. Forse saranno tutti questi mesi in cui mi sono visto il tennis in tv e poco altro,ma ho voglia di mettermi in gioco. Forse è il momento per dare un segnale di cambiamento. E capire il nuovo stato delle cose».