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 2021  aprile 15 Giovedì calendario

Piante che diventano biofabbriche

Dodicimila e 500 metri quadrati. Basterebbe una superficie corrispondente di serre per produrre biomolecole sufficienti per le dosi di vaccino anti-Covid necessarie in Italia. La stima arriva da un team di ricercatori dell’Enea e del Cnr che, in uno studio pubblicato su Frontiers in Plant Science, si focalizzano sulla possibilità di realizzare nel nostro Paese strutture per produrre “in pianta” le biomolecole necessarie per lo screening diagnostico di massa, l’immunoterapia passiva e la vaccinazione, da utilizzare non solo per il Covid, ma anche per eventuali future nuove pandemie.
In Canada sta già accadendo: in queste settimane è entrato in fase di sperimentazione il primo vaccino anti-Covid prodotto con molecole di origine vegetale, ottenute in vertical farm da parte di Medicago con Gsk. Da anni Medicago – che ha già avuto l’autorizzazione per un vaccino quadrivalente per l’influenza – utilizza il vertical farming, la tecnologia che consente di far crescere grandi quantità di piante, in laboratori disposti su più piani. In generale questa tecnologia – per lo più utilizzata per produrre ortaggi e frutta – permette di avere un minor consumo di risorse naturali come acqua e suolo e offre un ambiente inattaccabile da patogeni, con minimo o nullo utilizzo di pesticidi. In Europa, la tedesca Icon Genetics – acquisita dalla giapponese Denka – ha sviluppato un vaccino norovirus, a partire dalle piante. «Nella farmaceutica si utilizzano piante come la Nicotiana Benthamiana, che vengono modificate attraverso le biotecnologie vegetali in modo da avere una riprogrammazione a livello genetico che induca la produzione di molecole ad alto valore aggiunto per determinati composti» spiega Linda Avesani, ricercatrice al Dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Verona e cofondatrice di Diamante, spinoff impegnata nell’utilizzo delle piante per produrre molecole per kit diagnostici e terapeutici legati alle malattie autoimmuni. Quali sono i vantaggi di utilizzare le piante? «I sistemi tradizionali si bassano su cellule di batterio o di mammifero o di insetti geneticamente modificate. E vengono coltivate in un setting industriali con biofermentatori in condizioni sterili. 
Le piante hanno minori costi, non servono bioreattori o condizioni sterili ma basta una serra dove un forte controllo sulle condizioni (clima, illuminazione) permettono di aumentare le rese di produzione di questi biofarmaceutici». Le piante offrono una maggiore sicurezza perché non sono attaccabili da patogeni potenzialmente pericolosi per l’uomo, sono caratterizzate da grande stabilità ed enorme velocità: «Dal momento in cui si conosce la sequenza genetica per la produzione di una molecola, le piante in poche settimane riescono a produrre la molecola corrispondente» spiega Avesani. Per fare un confronto a livello industriale, per esempio nel caso di un vaccino per il linfoma non Hodgkin, con le piante si è riusciti in tre settimane ad avere prodotto finito e pronto per la sperimentazione, mentre per con sistemi classici con cellule di mammifero si è arrivati a tre-sei mesi. 
Ma allora a fronte di questi vantaggi perché non si introduce subito questa tecnologia? Mancano le competenze tecnologico e scientifico? «È una tecnologia che noi, Cnr ed Enea studiamo da anni. Ci sono tante pubblicazioni. Le competenze anche a livello pubblico ci sono. Ma è ancora una tecnologia poco conosciuta e molto disruptive dal punto di vista dell’investimento e presupporrebbe cambiare completamente paradigma da parte della farmaceutica».
Questa tecnologia nasce negli anni 90 per fornire all’Africa vaccini edibili (senza bisogno dunque di usare siringhe) da produrre su vasta scala, in un contesto in cui non si poteva contare sulla catena del freddo. La soluzione non andò in porto per diversi motivi tecnici. Poi negli Stati Uniti la ricerca è stata accelerata dall’emergenza antrace, usata come arma batteriologica. Il Governo diede ingenti finanziamenti dopo che il Darpa chiese alle aziende di produrre in tempi rapidi una proteina come antidoto e le più veloci furono proprio le imprese basate sulle piante. Il Governo premiò questa tecnologia ovviamente per il fattore tempo pensando a possibili attacchi di bioterrorismo o alle pandemie. «In effetti è una tecnologia non solo rapida ma scalabile e flessibile: in poco tempo si può iniziare la produzione, che non necessita di costosi bioreattori e che si può aumentare semplicemente ampliando la superficie coltivata. – spiega Selene Baschieri, primo ricercatore del Laboratorio di biotecnologie dell’Enea – Inoltre i costi di investimento iniziali e di mantenimento sono inferiori a quelli dei sistemi tradizionali».
L’Enea ha iniziato a dedicarsi allo sviluppo di “piante biofabbrica” già una trentina di anni fa. Oggi la ricerca è focalizzata sull’impiego di questa piattaforma per la produzione di anticorpi per l’immunoterapia passiva e di vaccini, anche per uso veterinario, dove i costi minori favorirebbero una maggiore diffusione delle vaccinazioni e una riduzione dell’uso degli antibiotici. «Peraltro la piattaforma basata sulle piante è migliore dal punto di vista della biosicurezza rispetto alle piattaforme più comunemente utilizzate e basate su cellule batteriche o di mammifero» aggiunge Baschieri.
Nel paper si spiega che la tecnologia è disponibile, scalabile, non è costosa ed è sicura. «Noi siamo disponibili a fornire il know-how ma chiaramente servono interventi pubblici -conclude la ricercatrice – Le aziende farmaceutiche sostengono ingenti investimenti finalizzati allo sviluppo di biofarmaci per il trattamento di patologie diffuse, soprattutto nei paesi industrializzati, mentre i governi potrebbero maggiormente investire in ricerca su malattie rare o per affrontare situazioni emergenziali come l’attuale pandemia, in cui in breve tempo è necessario avere ingenti approvvigionamenti di vaccini, anticorpi e diagnostici».