Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 15 Giovedì calendario

Mauro Covacich e il vizio del maratoneta

Non è affatto consigliabile essere dei tossici per leggere uno dei più immortali capolavori della prosa inglese, le Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey. Semmai, la letteratura dà il suo meglio quando, partendo da un certo grado necessario di presupposti linguistici comuni all’autore e al lettore, ti fa immaginare forme di vita e aspetti dell’esperienza di cui non sapevi assolutamente nulla. Solo la cattiva letteratura mira al riconoscimento e all’identificazione. Sono gli strumenti fin troppo abusati di un facile successo, ma rendono i libri rapidamente dimenticabili, come se avessero la data di scadenza stampata sulla copertina. La posta in gioco più preziosa è l’esatto contrario: la possibilità di allargare, complicare, e in definitiva arricchire il nostro concetto dell’«umano». 
Nel suo saggio Sulla corsa (La nave di Teseo) Mauro Covacich centra proprio questo difficile bersaglio. L’esempio del capolavoro di de Quincey rimane pertinente perché sia il «mangiare» che appare nel titolo dello scrittore inglese, sia il «correre» raccontato da Covacich sono fatti della vita del tutto naturali e ancestrali. È il fatto che diventino un vizio assurdo a trasformarli in un oggetto narrativo interessante. Non a caso, con grande stupore di tutti i lettori, non importa quanto salutisti, alla fine del suo libro Covacich stabilisce un’analogia rivelatrice tra la corsa e il fumo di sigarette. Rimediato con l’arrivo della mezza età un acciacco cardiaco che lo obbliga a rinunciare alla corsa, imparerà a fumare. 
Se la racconto così, sembra davvero strano, ma dopo aver letto il libro, siamo tutti contenti per lui: non c’è paragone, fumare gli allungherà la vita molto più delle follie a cui lo sottoponeva il precedente vizio! Eppure, come tutti gli scampati, Covacich può almeno affermare che ha imparato qualcosa, e il suo libro, che è un sapiente tessuto di divagazioni e variazioni sul tema, ha il pregio di non annoiare mai declinando quello che, in apparenza, è il più noioso di tutti gli argomenti possibili.
Se Covacich ci insegna così bene tante cose, è perché le ha imparate sulla sua pelle, mettendo progressivamente in gioco lati della sua coscienza e del suo carattere che erano latenti. In questo è diverso dal suo più illustre predecessore, il Murakami dell’Arte di correre, un altro bel libro che però sembra scaturire da una saggezza acquisita una volta per tutte. E poi, per uno come Covacich l’uso delle cuffiette di cui parla il romanziere giapponese (grande esperto di jazz) è poco meno che un sacrilegio. Le uniche musiche ammesse da questo estremista della falcata sono il rumore delle suole di gomma sull’asfalto o sul tartan, e quello più angoscioso e indecifrabile del sangue che pulsa disperato nel sistema venoso e arterioso. Sì, disperato: perché per Covacich la semantica del verbo «correre» ha poco a che vedere con i blandi allenamenti al parco di cui tanto si è parlato nei primi mesi del Covid, quando com’è noto pur di uscire di casa gli italiani sprovvisti di cane indossarono in massa fuseaux e scarpette da ginnastica. Sono buoni tutti, almeno fino a una certa età e fino a un certo peso, a correre dietro a un autobus per non perderlo. 
Covacich non prende nemmeno in considerazione queste manifestazioni marginali, per le quali esiste infatti un altro verbo, dalla sfumatura decisamente peggiorativa: «corricchiare». Per lui, che ha praticato l’arte a un buon livello agonistico, è costante e totalizzante il confronto con un archetipo, che è quello della maratona. Non esiste una disciplina sportiva che incarni alla perfezione una mitologia come la maratona, questo tentato suicidio lungo quarantadue chilometri e una manciata di metri (gli ultimi, i peggiori). 
Come tutti impariamo sui banchi di scuola, dopo la vittoria dei Greci sui Persiani a Maratona, un soldato chiamato Filippide portò la buona notizia ad Atene percorrendo la distanza di corsa. Secondo il racconto di Plutarco, questo valoroso messaggero fece appena in tempo a dire «abbiamo vinto» prima di cadere a terra morto per la fatica. Dunque i maratoneti sono una comunità di esseri umani uniti dalla vocazione, più unica che rara, di ripetere un’impresa finita male. Ha buon gioco Covacich nell’evocare la freudiana pulsione di morte e la sua fida sorella, la coazione a ripetere. Freud capì tardi queste oscure componenti dell’essere umano, che dalla psiche affondano le loro radici nell’oscuro terreno della biologia. Dopo la Prima Guerra Mondiale, analizzando i sogni di pazienti traumatizzati, capì che i prodotti dell’inconscio non esprimono solo la realizzazione di desideri estranei alla coscienza. La vita non è così semplice: noi viventi vogliamo morire almeno tanto quanto vogliamo vivere. E intitolò il libro che dava conto della nuova, sconvolgente scoperta Al di là del principio di piacere. Che sarebbe una formula perfetta per sintetizzare anche il senso dei fatti raccontati da Covacich. Al centro di questi fatti c’è un corpo che, letteralmente, cannibalizza se stesso, sia nell’atto della corsa che nutrendosi ai limiti dell’anoressia. 
A partire dai grassi, tutto viene bruciato in quel forno, fino al punto in cui l’individuo è trasformato in una specie di spaventapasseri semovente fatto di ossa e muscoli disidratati e doloranti. Oltre un certo limite, chiamato «soglia di Van Aaken», com’è facilmente intuibile se ne va pure la voce, attributo canonico dell’essere umano, perché «l’affanno azzittisce anche l’atleta più loquace». Ma da questa sistematica mortificazione, come la definirebbero gli antichi libri di alchimia, sorge un concetto di «mente» che non ha più nulla a che vedere con la psiche e i suoi fantasmi. Semplificando al massimo (ma il bello della letteratura non è forse la drastica semplificazione di ogni complessità ?), il corpo, nella sua totalità di mente e materia organica, inizia a pensare a modo suo, sul difficile crinale che separa la conservazione e l’estinzione. La maratona è esattamente questo confine e questo equilibrio patteggiato metro dopo metro. 
Bisogna leggere le pagine in cui Covacich ci spiega come a un certo punto della sua vita un certo muscoletto annidato nei suoi glutei, a forma di pera o di fiammella, abbia cominciato a pensare meglio di lui, che pure è una persona istruita, addirittura uno scrittore ! Ne valeva la pena? Secondo me sì, la nostra cultura è troppo orientata verso un’auto-conservazione che limita il campo dell’esperienza nei tristi steccati del ragionevole. Ma conservarsi è impossibile, il tempo è la nostra vera maratona. Non è questione né di correre né di fumare, ma di sondare i nostri limiti prima che sia troppo tardi.