il Giornale, 14 aprile 2021
Sul Dostoevskij di Nori
Aveva una copia dei Fratelli Karamazov sul comodino; alle quattro di notte del 28 ottobre, era il 1910, Lev Tolstoj lasciò tutto, moglie, casa, figli, fama, status, in una specie di famelico addio al mondo. Nella foga della fuga, morì, il più grande scrittore di ogni tempo, nella minuscola stazione di Astàpovo. Da sere, litigava con Dostoevskij. «Ho letto Dostoevskij e mi ha colpito la sua sciattezza, la sua falsità», scrive, nel suo diario, il 18 ottobre; e poi, qualche giorno dopo, «Sono arrivato in fondo alla prima parte dei Karamazov. C’è molto di buono... Il grande Inquisitore e il congedo di Zosima»; poi torna a sé, ai propri abissi, «Ho camminato senza meta... Non faccio nulla di male, ma mi sento colpevole». Infine, parte.
Tolstoj e Dostoevskij, come si sa, non si sono mai incontrati: nel 1877, nella sua rubrica, Diario di uno scrittore, Fëdor scrive un lungo pezzo su Anna Karenina. La definisce «una cosa perfetta come opera d’arte»; ne intuisce il senso cupo, l’alone d’angoscia che vela il genio di colui che ha scritto quel romanzo. Sarebbe bello credere che Tolstoj si sia risolto a fuggire dopo aver letto I fratelli Karamazov. Di certo, scappando, Lev Tolstoj, il guru, il sommo romanziere, l’eresiarca scomunicato dalla chiesa ortodossa, il sessuomane e l’uomo pio, l’insofferente, il violento, è diventato un personaggio degno di Dostoevskij. Già: la vita di Tolstoj sembra parodiare un romanzo di Dostoevskij. Ci sarebbe da scriverne.
Piuttosto, Tolstoj ci insegna come si deve leggere Dostoevskij. Imprecando. Lottando. Dostoevskij non è per le passioni piccole, non è uno stilita dello stile, non seduce, come fa Tolstoj. Vuole essere gettato fuori dalla finestra. Poi recuperato. Poi preso a morsi. Dostoevskij è lo scrittore che evoca le reazioni smodate, che smobilita i centrini della critica, le convenzioni familiari, le comodità. Secondo Vladimir Nabokov, per dire (lo leggete nelle Lezioni di letteratura russa, edito da Adelphi), «Dostoevskij non è un grande scrittore, è uno scrittore piuttosto mediocre, con lampi di humour eccellente, inframmezzato da desolate distese di banalità letterarie». Il grande Harold Bloom sbagliava a distinguere il Dostoevskij del Diario di uno scrittore da quello dei romanzi, perché è lo stesso magma, il medesimo, insopportabile veleno ad agitare la sua scrittura, eppure, pur dicendogliene di ogni «il suo oscurantismo... abbraccia una forma di adorazione per la tirannia, un odio per tutte le democrazie, e un profondo e malvagio antisemitismo» non poteva non riconoscere che «Dostoevskij rimane indispensabile». Ovvio. Dostoevskij pone nel cuore spinato delle scelte impossibili, nel gorgo del miracolo, al di là di ogni merito, e si legge questo è ancora Bloom «percorsi da un brivido». Ancora di più: leggendolo, Dostoevskij pretende il nostro sangue, in ampolle. Sanguina ancora. Ecco. Non c’è titolo migliore per un «romanzo» come è ricordato, in rilievo su «L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij» (Mondadori, pagg. 288, euro 18,50). E forse nessun altro poteva scrivere un «romanzo» sulla vita di Dostoevskij se non Paolo Nori, che dei russi sa la connaturata follia (I russi sono matti è il titolo di un suo «corso sintetico di letteratura russa» edito da Utet un paio di anni fa), dei russi ha tradotto i libri più folli (gli scritti di Daniil Charms, le poesie di Velimir Chlebnikov), ha messo nella stessa gabbia Tre matti (cioè i pazzi dei racconti di Gogol’, Dostoevskij e Tolstoj, in un libro edito da Voland nel 2014), ed è solito produrre «repertori dei matti». E forse non si poteva scrivere in altro modo un «romanzo» sulla vita di Dostoevskij, in una formula, cioè, sincopata e sincretica, sacrilega alla letteratura, dove l’autobiografia (che bello il brano sulla morte di Renzo Nori, «mio babbo», «l’11 settembre del 1999» e «mi sono messo a piangere come una vite tagliata») si mescola all’anamnesi delle opere di Dosto, gli sketch da cabaret pietroburghese si fondono all’acuto critico, all’estro bibliografico, spesso anomalo («Credo che Viktor klovskij sia un grande scrittore russo del XX secolo»: è vero!).
Mi spiace, in questa gimkana dostoevskiana, le montagne russe dentro il corpus del grande russo, non trovare il nome di Lev estov, il più formidabile interprete di Dostoevskij, che dai suoi romanzi ha tratto un pensare scandaloso, perturbante. In un saggio decisivo, «La lotta contro le evidenze», raccolto in Sulla bilancia di Giobbe (Adelphi, 1991), estov insegna che «Chi vuole avvicinarsi a Dostoevskij deve compiere tutta una serie di exercitia spiritualia e deve vivere ore, giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie, che si escludono a vicenda», e che «l’opera di Dostoevskij rasenta la chiaroveggenza, è inesauribile» perché ci obbliga a ragionare sul fatto che «Dio esige sempre l’impossibile», «che il capriccio ha diritto a garanzie; che la vita è la morte e la morte è la vita», che «verità e conoscenza scientifica sono inconciliabili». Insomma, che Dostoevskij si legge sanguinando.
D’altronde, Sanguina ancora svela che Paolo Nori è un Uomo del Sottosuolo («Questo personaggio, tra tutti i personaggi di Dostoevskij, non voglio darmi dell’importanza, è quello che mi assomiglia di più, secondo me», confessa nel capitoletto che s’intitola «Un uomo malato», il più bello del libro) e che si va dentro Dostoevskij a tentoni, per tentativi, temerari e timorati. «Avevo paura», scrive Nori quando racconta di aver ripreso in mano Delitto e castigo dopo troppi anni. «Mi sembrava che, se non mi fosse piaciuto, mi sarebbe venuto il dubbio che avevo sbagliato tutto, nella mia vita». Proprio così. Dostoevskij coincide con la nostra vita; la scrive, continuamente. Dai suoi libri non traiamo la pia morale dei pavidi. Dostoevskij ci dice che sperimentare il nulla è fondamentale per riconoscere il tutto, che per sollevarci dobbiamo cadere, che per capire chi siamo dobbiamo cederci al massacro. E che, comunque, acidi nichilisti o estremisti in Dio, ci prenderanno per pazzi, perché la follia è la sola sapienza e la società è l’usura dell’anima. Dopo aver letto Dostoevskij, ecco, devi fuggire, in un grido scintillante e triangolare. Come ha fatto Tolstoj.