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 2021  aprile 14 Mercoledì calendario

Citto Maselli ricorda (e dona il suo archivio)

Citto Maselli ha deciso. Le carte di una vita, i pezzi privati di quel cinema appassionato e militante che realizza da quasi settant’anni (il suo esordio è Storia di Caterina , 1953) lasceranno la casa al quartiere Flaminio di Roma per approdare al Centro Sperimentale, donati agli archivi della Biblioteca Chiarini e della Cineteca Nazionale: soggetti, sceneggiature, foto, lettere, articoli, pellicole, provini... L’acquisizione è stata una delle ultime iniziative di Felice Laudadio prima della fine del suo mandato di presidente del Centro Sperimentale. In via Tuscolana, tra l’altro, Maselli ha studiato e poi insegnato. «Sì, è una specie di chiusura del cerchio», dice il regista novantenne. «Fra i docenti c’era Pasinetti, autore della prima storia del cinema in Italia. Era un veneziano molto signorile, che teneva le distanze, ma un giorno parlando di me disse: "È uno che farà strada". Rimasi sbalordito».
Qual è il suo ricordo preferito da allievo?
«Il mio primo esame. A interrogarmi c’era Antonioni, che allora aveva girato solo i primi cortometraggi. Mi chiese quali sceneggiatori francesi mi piacevano. Dissi Prévert, e gli vidi fare con la testa segno di no. Oddio! Pensai di avere sbagliato. Allora dissi Aurenche e Bost, e fece lo stesso movimento. Poi per fortuna fece lo stesso gesto "fuori sincrono" e capii che era un tic nervoso. Anni dopo seppi che David Hemmings, facendo il provino per Blow Up , aveva avuto lo stesso dramma».
Ha conservato molti provini.
«Ci dev’essere anche quello che feci a Lucio Magri per Lettera aperta a un giornale della sera. Era bellissimo ma troppo "cane" a recitare: al suo posto presi Piero Faggioni».
Ci sono anche soggetti di film non realizzati?
«Diversi. Gliene dico uno, Solitudine , scritto per Anna Magnani nella seconda metà degli anni 50. Era una bella storia, su un’attrice che rifiuta l’Oscar, attorniata da un giovane amante, una segretaria, un figlio, che vivono intorno a lei solo per approfittarne... Avevo praticamente già combinato il film a Parigi, i produttori di Les Films Ariane erano interessatissimi. Anna era felice».
Perché non si fece?
«Anna mi chiese di farlo leggere a Fellini. Quando torna mi fa: "Federico ha detto che se lo faccio porta jella". Fellini mi chiama: "Senti, ti devo spiegare...". Mi convoca di mattina, alla sette!, al Residence Palace, ma non sa che dirmi: "Tu racconti Anna in modo anche critico, dirle di no mi sembrava un fatto morale". Capirai, un cinicone come lui... Perché non gli sia piaciuto non si sa».
Posso dirglielo? Lei è più divertente di quanto ci si immagina.
«Mi piaceva fare imitazioni di certi generici romani. Mi ero inventato il personaggio di una comparsa che raccontava di avere lavorato con Alessandro Blasetti, che secondo lui non sapeva dove collocare la cinepresa: "Io glielo dissi, al dottor Blasetti, dove mettere la macchina e lui mi ha detto: mi hai salvato!". Cose così. A una festa in onore di Fellini, per E la nave va , feci finta di non avere più i denti e gli dissi: "Federico, ti benedico!". Fellini sbiancò, pensò che avessi avuto un’ischemia. Si mise proprio paura, si alzò e se ne andò. E Giulietta: "Ma no, Federico, lo sai che lui fa i personaggi..."».
Lei si è spesso battuto in prima persona, politicamente, per il cinema.
«Un giorno il ministro Carraro chiamò il presidente dell’Anica, Cristaldi, e il presidente degli autori, che ero io, e fece un discorso lucido: siete su lati opposti, creativo e commerciale, mettetevi d’accordo. Nacque la legge dei 3 C: Carraro, Cristaldi e Citto. Venne approvata nel ’94, l’ultimo giorno prima che si sciogliesse il parlamento. Fu una mattina drammatica, con noi autori sotto il parlamento: poi Napolitano chiamò su me e l’avvocato Massaro, che rappresentava i produttori. Avevo molta influenza allora».
Ma la famosa egemonia culturale del Pci sul cinema c’era o no?
«C’era, e nasce negli anni 30, con la rivista "Cinema" fatta da Gianni Puccini, Antonio Pietrangeli, Peppe De Santis e Pietro Ingrao. Poi arrivò Visconti dalla Francia, dove c’era il fronte popolare e Renoir, con cui aveva esordito. Visconti, convinto comunista, si unì subito al gruppo di "Cinema" e diventò importante».
Perché?

«Intanto perché aveva i soldi. Potè di fatto finanziarsi Ossessione , che scrisse con Alicata. In un’epoca in cui un dirigente fascista come Luigi Freddi aveva fatto una politica di falsificazione della realtà, Ossessione fu una rivoluzione perché mostrava anche gente povera. Ricordo che ci fu una proiezione a Palazzo Braschi, alla federazione fascista: gli squadristi in divisa cominciarono a schiaffeggiare tutti e s’interruppe la proiezione».
A maggio Ettore Scola avrebbe compiuto 90 anni: so che siete stati molto amici.
«Scappavo a Cannes a vedere i suoi film, e lui faceva lo stesso con me. Nell’86, dopo la presentazione a Venezia di Storia d’amore rimanemmo fino alle 4 di mattina con lui, Stefano Rodotà, Valeria Golino e il produttore Carlo Tuzii. Poi andammo alla stazione per vedere cosa dicevano i giornali del film. Trovavamo recensioni ovunque tranne che sull’ Unità : sfogliavamo, sfogliavamo, eravamo disperati... Non c’eravamo accorti che il pezzo stava in prima pagina: Venezia ha già trovato il suo Leone d’Oro, una critica molto positiva di Sauro Borelli».
Poi però il Leone d’Oro andò a "Il raggio verde" di Rohmer.
«Storia d’amore ebbe il Premio Speciale. Robbe-Grillet, che era stato presidente della giuria, mi raccontò che si era battuto per il Leone ma che Nanni Moretti si era opposto».
Ha avuto modo di parlargliene?
«No, con Moretti non siamo mai stati molto amici».
Non le piacciono i suoi film?
«Mmm... non molto. Uno sì, Palombella rossa».
L’ultima volta che vi siete visti con Scola fu al funerale di Ingrao.
«Ettore mi manca in modo terribile: l’amicizia, il senso dell’humour, l’affetto... Ci tengo a dire che continuiamo a frequentare la sua famiglia, soprattutto sua moglie Gigliola, che è stata mia testimone di nozze, e la figlia Paola: è un mod o di continuare a ricordarlo».