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 2021  aprile 14 Mercoledì calendario

L’Italia nata a Calatafimi morta a Teano

Ma insomma: chi l’ha fatta questa Italia? Il numero di Robinson che era stato dedicato a questo tema (uscito il 13 marzo scorso), insinuava correttamente che si trattò di un corredo di forze diverse, e anche contrastanti fra loro. Le stesse che, ad un certo punto, quando si trattava di raccogliere i frutti di quel lavoro faticoso e molteplice, preferirono un incontro – magari faticoso e difficoltoso – alla continuazione, e magari all’approfondimento, dei rispettivi caratteri, talvolta molto differenziati.
Anni or sono, durante uno dei miei molti viaggi in Sicilia, mi spinsi verso l’estrema costa occidentale dell’isola e così m’imbattei nel paese di Calatafimi, nodo imprescindibile per chi voglia arrivare da Marsala, dove i Mille di Garibaldi erano sbarcati e Palermo, dove i Mille erano diretti, come tappa imprescindibile del loro viaggio.
Calatafimi è collocata su di una sella fra due colli, a occidente del bacino del fiume Freddo. La visita è utile per capire meglio, molto meglio, quello di cui tutti i libri parlano, ma un po’, com’è ovvio, astrattamente: per andare dalla costa verso il paese bisogna risalire un erto pendio, difficile da scalare anche in condizioni normali.
I Mille (poco più di mille, in realtà: forse 1047, forse ancora fra 1100 e 1200) lo fecero sotto il fuoco battente di una truppa borbonica, il doppio di loro, attestata su di una collina, denominata il Pianto di Romana, molto meglio armata, anche con artiglieria. E, dopo furiosi attacchi e contrattacchi, la costrinsero ad abbandonare la posizione e a lasciar loro libera la strada verso Palermo. Dopo qualche giorno, le truppe garibaldine entrarono in città, non senza altri furiosi combattimenti contro truppe soverchianti.
Nel cimitero di Calatafimi, a poca distanza dal paese, sorge una cripta dove sono raccolte le salme dei garibaldini morti durante quella battaglia. Mi soffermai a lungo di fronte alle file di quelle piccole lapidi. Sono 32 (pochi? beh, questo era il frutto, allora, di quel limitato volume di fuoco), cui vanno aggiunti (così dicono anche in questo caso i libri) sei-sette scomparsi nelle settimane successive per le ferite riportate in battaglia.
Inviterei il lettore a leggere con me i sintetici dati anagrafici riportati su quelle lapidi. Si tratta pressoché esclusivamente di soggetti settentrionali. Colpisce il numero dei caduti provenienti da Bergamo e da Brescia. Poi genovesi, altri lombardi, veneti, qualche torinese, piemontese, emiliano. Un solo siciliano. Considerazioni analoghe – non ho ombra di dubbio – si potrebbero fare per il resto del corpo dei Mille.
Età: venti-trenta anni (abbastanza, ovviamente). Ma anche veri e propri ragazzi. Un solo anziano (guarda caso: l’unico siciliano del gruppo, sarebbe interessante scoprire se c’è una relazione fra le due cose). Estrazione sociale: dalle lapidi non risulta, ma qualsiasi informazione relativa porta a rispondere: classi basse, operai, commessi, studenti (anche in questo caso considerazioni analoghe si potrebbero fare per il resto dei Mille).
Insomma: una marcata caratterizzazione settentrionale, classi basse, giovane età. Ovvero: l’impresa dei Mille poggia interamente sulla sollecitazione radicale rappresentata da Garibaldi e dal garibaldinismo, senza la quale questo volontariato, ristretto all’origine, ma molto, molto contagioso, non sarebbe neanche nato, e la Sicilia e l’Italia meridionale, ossia la “Borboneide”, non sarebbero neanche state messe a rischio.
Ora, quello che voglio dire è che per portare questa truppa di giovani settentrionali a mettere a rischio la loro vita in Sicilia, in nome dell’unità d’Italia – in nome dell’Italia! – ci volevano gli ideali e il garibaldinismo, altrimenti il meccanismo non avrebbe preso neanche a funzionare. Si poteva del resto pensare all’unità d’Italia, anzi – più esattamente – a un soggetto politico-statuale fino a quel momento sconosciuto ai più senza travalicare i confini del già noto e del già detto? Evidentemente non si poteva. Il compimento dell’opera fu la congiunzione fra le due spinte unitarie, quella moderata, piemontese e savoiarda, e quella radicale e garibaldina.
Nell’ottobre del 1860, Garibaldi indì i plebisciti per chiedere alle popolazioni meridionali se fossero disposte a riconoscere l’unità d’Italia sotto la sovranità del re Vittorio Emanuele II di Savoia. Le risposte furono pressoché universalmente positive. Il che indusse, molti anni più tardi, un insolito, alto scrittore aristocratico siciliano, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ad avanzare dubbi nel suo Gattopardo sulla regolarità della consultazione: altro aspetto della questione, che andrebbe sempre tenuto presente.
La sanzione definitiva del processo si ebbe quando il 26 ottobre (dunque, erano passati meno di sei mesi dallo sbarco di Marsala) Vittorio Emanuele II di Savoia e Giuseppe Garibaldi s’incontrarono (non casualmente, com’è ovvio) nei pressi di Teano, comune del casertano (ai confini settentrionali, dunque, di quella vasta terra liberata).
A quanto raccontano i testimoni (e gli storici), Garibaldi si sarebbe girato sul suo cavallo e avrebbe gridato: «Ecco il re d’Italia!». E i presenti (in gran parte accompagnatori del re) gli avrebbero fatto eco.
Così si potrebbe un po’ settariamente dire che l’Italia nasce tra Calatafimi – solo un esercito del tutto irregolare e “votato alla morte” avrebbe potuto affrontare e vincere quella battaglia – e Teano – solo una lungimiranza fuori del comune avrebbe potuto indurre il capopopolo fuori dagli schemi e altamente irregolare a riversare nelle mani di un sovrano il frutto della sua coraggiosa e fortunata impresa di liberazione.
Da queste due scelte deriva sostanzialmente ciò che siamo. Tutto bene. Peccato che (insinuo il dubbio) nella storia successiva d’Italia fino ai nostri giorni (sì, fino ai nostri giorni) ci siano state poche Calatafimi e una miriade di Teano.