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 2021  aprile 14 Mercoledì calendario

Mauro Berruto e la politica. Intervista

Questo è l’uomo che potrebbe scrivere la parola "sport" nella Costituzione, e sarebbe una partita vinta punto a punto dopo 75 anni. Come quando Mauro Berruto guidava la Nazionale maschile di pallavolo, meravigliosa disciplina dove il passaggio è obbligato: gli altri, e poi io. Dal tempo di Gramsci, lo sport non era mai entrato nella segreteria del Pci, oggi Pd: Enrico Letta il 18 marzo ha chiamato Berruto, 51 anni, torinese di Borgo San Paolo, tra i 16 che dovranno ridisegnare la sinistra italiana e forse un po’ l’Italia.
Berruto, lei cosa voleva fare da grande?
«In cucina avevamo questo televisore in bianco e nero sopra il frigorifero, era il 1976 e dentro lo schermo volteggiava Nadia Comaneci.
L’esercizio perfetto. Ecco, io avevo sette anni e mi si accese la scintilla» .
Voleva diventare la Comaneci?
«Volevo solo lo sport, parola che ha determinato la mia vita. Tra l’altro, in quell’anno il Toro vinse pure lo scudetto. Papà mi portò a festeggiare in piazza Castello: girammo tre volte con l’auto intorno a Palazzo Madama, ma al terzo giro la nostra Fiat 124 prese fuoco. Il tragico destino granata anche nei rari giorni di gloria» .
Cosa facevano i suoi genitori?
«Papà Giuseppe ha lavorato per tutta la vita alla Fiat, nel magazzino di corso Marche, mamma Luciana era casalinga. Papà aveva la passione dell’orologeria, ma dentro quei meccanismi io non mi ci trovavo. In famiglia non c’era nulla di sportivo» .
Come andò a finire?
«Da ragazzo allenavo all’oratorio di San Bernardino, nel nostro borgo operaio. Volevo mettere il naso al Cus Torino che era lì a due passi, così mi presentai con un progetto per il minivolley alle elementari. Ero un piazzista e mi aprirono: un sogno a chilometro zero» .
Ma da qui alla Nazionale, è lunga.
«Ogni sera andavo a guardare l’allenamento della prima squadra del Cus, che allora dominava in Italia e all’estero. Dopo un po’, il coach Gabriele Melato mi fa: "Ehi, visto che sei sempre qui, dacci una mano con i palloni". Poi mi passò una montagna di videocassette: "Prendi, studia".
Cominciò così. Conobbi Montali, diventai suo assistente, finché non mi arrivò l’incredibile proposta dalla Grecia» .
Lasciò gli studi?
«Ma no, dovevo laurearmi in filosofia. Chiesi al professor Francesco Remotti di darmi un poco di tempo, gli spiegai di quest’offerta greca, lui sorrise e mi rispose: "Ci provi, tanto sappiamo tutti e due che non ce la farà mai". Mi motivò alla grande. Ce la feci, infatti, e due anni dopo presi la laurea con una tesi di antropologia culturale, la mia materia» .
Anche lo sport è antropologico, non crede?
«Una forma di arte e cultura, forse con qualcosa in più: perché non ho mai visto la gente abbracciarsi e far festa dopo aver guardato la Gioconda o il Macbeth».
Davvero è possibile scrivere finalmente la parola sport nella Carta costituzionale?
«Per citare un nostro grande concittadino, se non ora quando? Il tema è trasversale, non partitico: il diritto costituzionale allo sport, così come alla salute e all’istruzione, è la strada maestra per costruire un modello nuovo di cultura de l movimento. Servono politiche pubbliche per garantire questo diritto: non deve ricadere tutto sull’associazionismo e sulle famiglie, cioè sui privati. E la scuola non può più chiamarsi fuori».
Scuola, cioè Università?
«No, il nocciolo è la primaria, le vecchie elementari: è lì che nasce la passione per le cose e per il mondo.
Ho studiato Costituzioni più giovani della nostra: per esempio quella greca, spagnola, svizzera e portoghese. Tutte prevedono politiche sportive pubbliche. Non è assistenzialismo, è ossigeno perché lo sport sta morendo di Covid».
Come rianimarlo?
«Con i fondi europei, con la defiscalizzazione per chi investe, con la correzione della legge di riforma che definisce i lavoratori e le lavoratrici dello sport, con i voucher alle famiglie da spendere in attività sportive. Molto si potrà fare già in questa legislatura. Vi assicuro che le nostre vite cambieranno» .
Detta così, sembra una magnifica utopia.
«Le risponderò parlando della Finlandia. Quando ci andai per allenare la Nazionale, le magliette dei giocatori erano dentro i sacchi neri dell’anno prima. In tribuna, solo i parenti. Ebbene, nel giro di pochi anni abbiamo battuto i migliori al mondo».
Uno scherzo, rispetto a far votare di nuovo agli elettori il Pd.
«Le competenze della segreteria appena nata sono inattaccabili: perché la competenza è una virtù. Ma bisogna muoversi anche in orizzontale, come insegna la comunicazione digitale, riavviando le relazioni. Bisogna di nuovo prendersi cura, bisogna faticare» .
Davvero Letta è cambiato?
«Il grande antropologo Arnold Van Gennep — lo conosce? è il più noto esperto di riti tribali — ha raccontato benissimo la cosiddetta fase liminare: il ragazzino deve stare per un mese nella foresta, poi saprà guardare le cose dall’esterno e le vedrà meglio. Tornato da Parigi, credo che Letta abbia quello sguardo. Ma mi lasci precisare una cosa».
Prego, mister.
«Quando sono stato chiamato alla segreteria, ho chiesto che per favore nessuno mi spiegasse la mappa delle correnti Pd. Io credo in una sola identità: può essere la mia forza, come il motivo che può incenerirmi in sei mesi» .
Lei ha teorizzato l’allenamento all’ingiustizia: cos’è?
«Bisogna imparare a reagire quando si presenta l’imponderabile. Non tutto si prepara e si controlla, ma non tutto si deve subire: me l’hanno insegnato le Olimpiadi. E a Tokyo vedremo il mondo che riparte» .
Berruto, è vero che potrebbe diventare sindaco di Torino?
«È una cosa che sento circolare ma non mi è arrivata, e comunque adesso voglio fare quello che posso per lo sport, è una questione di sopravvivenza e di salute pubblica. Per 6 mesi allenai la squadra dell’ex manicomio criminale di Castiglione delle Stiviere, il luogo più vicino all’inferno tra quelli che ho incontrato in vita mia: alla fine del percorso, le 12 persone del gruppo avevano ridotto della metà l’uso dei farmaci. Perché è lo sport, il farmaco».
Lei è stato anche ct della Nazionale di tiro con l’arco: per ricavarci cosa?
«Le dirò del paradosso dell’arciere.
Dunque, la freccia scoccata si muove a zig zag, è una faccenda aerodinamica: non si deve mirare il centro del bersaglio per fare 10, cioè il punteggio massimo, ma bisogna scegliere un punto di vista diverso».
Dentro la foresta, sul limite.
«Più o meno. Perché la freccia nel suo viaggio oscilla, mentre il bersaglio sta sempre immobile. Forse, se non lo centriamo dovremmo smettere di dare la colpa al vento».