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 2021  aprile 13 Martedì calendario

Niccolò Ammaniti racconta la serie tv "Anna"

«Cinema o letteratura, per me la posta in gioco è sempre la stessa: costruire una storia come se fosse la possibilità di vivere un’altra vita, di abitare un’altra casa». Ho raggiunto Niccolò Ammaniti per fargli qualche domanda appena finito di vedere la sesta e ultima puntata di Anna, la serie tv scritta e diretta a partire dal romanzo omonimo pubblicato da Einaudi nel 2015. Tenendoci a debita distanza e indossando le mascherine, tentiamo un’intervista alla vecchia maniera, senza il filtro della distanza da monitor, con penna e taccuino. Mi sembra passata una vita intera da quando ho fatto per l’ultima volta una cosa del genere. Le domande suscitate da questa bellissima fiaba siciliana a puntate mi si accavallano nella mente. E non posso non cominciare, anche se l’argomento infastidisce molto comprensibilmente Ammaniti, dalla singolarissima circostanza di aver concepito una storia basata su una spietata pandemia virale («la rossa» la chiamano i personaggi) che lascia vivi solo bambini e adolescenti, spazzando via tutti gli adulti dal mondo. «Non è mai positivo che la realtà irrompa nella bolla di una storia, rende problematica la comprensione. Fin da quando ho concepito il romanzo, tanti anni fa, per me la malattia virale e le sue caratteristiche sono state una semplice premessa, o meglio un campo delimitato di cause e conseguenze. Una storia è come un mondo governato da un numero più limitato, più controllabile di leggi. Mi serviva una catastrofe che misteriosamente salvasse i bambini dall’apocalisse: un terremoto, o una guerra, avrebbero coinvolto tutta l’umanità in misura identica, senza lasciare superstiti». 
In effetti, le situazioni apocalittiche e i disastri sono una costante dell’immaginazione di Ammaniti fin dall’inizio della sua carriera. «In molti miei libri, in effetti, il mondo degli adulti salta per aria, o viene in qualche modo tenuto fuori. Ma sono cose che si radicano nell’infanzia: ti alzi, vai a scuola anche se non ti va, e accetti un intero sistema di leggi incomprensibili. E allora sogni che ti svegli la mattina... e gli adulti non ci sono più! I bambini e i ragazzini di Anna non sono più l’espressione dei loro genitori, non saranno obbligati a diventare come loro perché la malattia li colpirà quando cresceranno. Sanno che non diventeranno nulla, e questo li rende interessanti come personaggi della storia». E se il personaggio di Anna risulta (già nel libro e ancor più nella serie) così amabile e intenso, non è solo per il suo coraggio, la sua intelligenza, l’amore materno per il fratellino che le è stato affidato dalla madre in punto di morte. Anna è diversa dagli altri perché, da quel passato irrecuperabile che si è lasciata alle spalle («quella che ho immaginato, è una situazione da cui non si può più tornare indietro») si è portata dietro un elemento psicologico vitale: la capacità di reagire alle situazioni presupponendo l’esistenza di un futuro possibile. È questo il suo segreto e, dal punto di vista artistico, il motivo del vincolo profondo che ci lega al personaggio, sia leggendo il romanzo che guardando la serie. 

Oltre il braccio di mare che separa la Sicilia dal resto del mondo, tornato ad essere molto simile al mare mitico e infantile delle Mille e una notte o delle Avventure di Pinocchio, ci sono adulti ancora vivi, che magari hanno trovato un rimedio alla malattia? Questa caparbia lungimiranza, questa sfida al verosimile finisce per commuoverci più di ogni altro aspetto del personaggio. Come accadeva in certe grandi serie ormai storiche come Lost, il ruolo dei flashback è fondamentale. Anna ricorda bene, a differenza del fratellino, la vita prima del contagio, e tutto il mondo degli adulti: «Ho cercato in ogni puntata di valorizzare questi flashback non solo dal punto di vista narrativo. C’è un livello dei fatti che hanno un ordine cronologico, e un livello diverso in cui la gerarchia è quella dei sentimenti generati dai ricordi». 
Dove c’è una fiaba, non può mancare un antagonista potente, un’incarnazione visibile e concreta del male. E così ad Anna si contrappone, in una sfida dagli esiti imprevedibili, Angelica, carattere narcisista e grande manipolatrice: un colosso di malvagità dai piedi di argilla, come vuole la regola delle favole, ma temibile e intelligente. «Lei è come un orco, o come Polifemo nell’Odissea. Non esiste un altro modo per sconfiggerla che metterla in trappola. Anche Angelica, come Anna, è una conseguenza del mondo com’era prima della catastrofe, quando comandavano gli adulti. Era già crudele. La nuova situazione esalta queste premesse sia nel bene che nel male». A differenza di Anna, che custodisce la sua memoria come la risorsa più preziosa, Angelica e i suoi seguaci vivono la nefasta utopia di una società priva di storia? «Sì, i cattivi di questa favola vogliono vivere in un eterno presente, è questo che li autorizza ad essere crudeli. Poi è ovvio che in quelle condizioni la forma della convivenza non sia più una società: ridiventano una tribù, per questo si dipingono con la calce». 

Non mi azzarderò a rivelare nulla, rovinando il piacere della visione, ma chiedo ad Ammaniti qualcosa sulla differenza dei finali della serie e del romanzo. A un certo punto il fatto di filmare una storia, anziché scriverla, può imporre di scegliere una strada narrativa diversa? «Per me, imparare questo nuovo linguaggio ha significato sostituire una costruzione visiva all’impalcatura delle parole, della frase. Il finale scritto di Anna è più poetico, lievemente irrazionale, evocativo. Sta bene in un libro perché la letteratura, fondamentalmente, suggerisce. Metà dell’opera la fa lo scrittore, e metà l’immaginazione del lettore, e in questa dinamica entrano anche cose delicatissime e quasi invisibili, anche il volo di una farfalla può avere una logica narrativa e un senso poetico. Il cinema no, è più pragmatico, è una lingua che esige carne e sangue, ovvero qualche forma di evidenza. Forse quando ho iniziato questa nuova avventura ero un po’ stanco di lavorare sulle parole».