La Stampa, 13 aprile 2021
Il garibaldino che piegò i negrieri del Darfur
Fu un grande esploratore, forse il più importante fra gli italiani del secondo Ottocento, le cui spedizioni erano assai più difficili perché non avevano alle spalle una potenza coloniale. Arrivò nell’Alto Nilo, in quella «infinita bolgia di miserie, violenze, schiacciate tra il sole e le acque stagnanti», ma aveva già combattuto in Crimea nella guerra prodromica al nostro Risorgimento, da giovani ufficiale britannico, e poi con Garibaldi nel 1859. E, soprattutto, fu l’artefice di un’impresa militare impossibile, che poco aveva da invidiare a quelle del suo generale: con pochi uomini, paradossalmente un migliaio, sbaragliò in una durissima campagna di guerra i trafficanti di schiavi che tra Sud Sudan e Darfur avevano costituito una sorta di regno autonomo.
Le imprese di Romolo Gessi ebbero una grande risonanza ai suoi tempi e vennero poi esaltate postume, in chiave politica, dal fascismo, condannandolo incolpevole a una sorta di successiva damnatio memoriae. Ora Domenico Quirico gli dedica un libro, Il pascià (Utet) – che non è solo una biografia –, cercando il personaggio, l’uomo, e la sua pensosa gloria; ripulendolo dalle scorie del tempo, attingendo ai suoi diari e soprattutto a quel che scrissero di lui gli inglesi, che lo considerano a tutt’oggi un loro personaggio storico.
Cosmopolita
Gessi, nato su una nave salpata da Ravenna alla volta di Istanbul dove il padre era diventato appunto il console inglese, cosmopolita nell’era dei nazionalismi (di cittadinanza britannica, solo successivamente pretese e ottenne quella italiana), poliglotta, formatasi in un’accademia militare tedesca, compì la sua impresa bellica più importante per conto dell’Egitto, formalmente parte dell’Impero turco ma sostanzialmente autonomo, e controllato indirettamente della corona britannica; dunque come ufficiale della Sublime Porta, e poi, per breve tempo, Pascià del regno selvaggio conquistato con le armi.
Lo aveva chiamato al Cairo un personaggio della sua stessa levatura avventurosa, Charles George Gordon, che con lui aveva combattuto in Crimea. Militare visionario, aveva poi guidato truppe in Cina durante la guerra dell’oppio fino a divenire, al servizio dell’Egitto ma con la supervisione della Corona britannica, pascià del Sudan. E’ considerato in patria uno dei grandi condottieri ottocenteschi del colonialismo inglese. C’è una sua statua persino a Khartum, dove morì nella città assediata dai ribelli durante la cosiddetta guerra mahdista.
Eroe solitario
Gessi è invece ricordato nei nomi di qualche strada qui è la per l’Italia, Torino compresa, e chi ci passa non ha la minima idea di chi si possa mai trattare. Un fantasma. E invece… invece leggendo questo libro scopriamo che è quel che si potrebbe definire un eroe solitario, un combattente idealista e perplesso, consapevole dei limiti della propria azione eppure dotato di coraggio e forza inarrestabili; uno dei quegli uomini che, ricorda Quirico citando Kipling, seppero di portare su di sé «il fardello dell’uomo bianco».
Combatteva i negrieri arabi fra le paludi dell’Alto Nilo, liberava i villaggi, liberava gli schiavi in quel cuore di tenebra, conscio che «la sua solitudine poteva esser spezzata solo dai volti sfuggenti di queste vittime eterne… creature che avevano l’aria di uscire dall’età della pietra solo per soffrire e si ritiravano di nuovo, rapidamente». Lo faceva in maniera spietata. Riuscì a scardinare un intero sistema di alleanze e complicità, e a distruggere bande infinitamente più numerose del suo piccolo inaffidabile esercito. Sottolinea Quirico, che la tratta araba è stata importante quanto quella europea verso l’America, ed altrettanto se non più feroce; ma è poco nota, bellamente ignorata e non fa parte certo della storia di cui ci si vergogna, del «dogma della colpevolezza generale dell’Occidente» per la «prosperità fondata sul delitto colonialista via via arricchita di peccati ideologici, ecologici, culturali: verità di stampo fideistico che sono proprio gli occidentali a ripetere, una martirologia politica che ha preso il posto della religiosità ecclesiale ormai defunta». Il suo non è infatti un libro di avventure – anche se non mancano. E’ un libro che prende posizione, che mette a confronto il tempo di Romolo Gessi e il nostro, nello stesso spazio geografico e politico.
Testimone
Da inviato della Stampa, l’autore è stato, a più riprese, fra Darfur e Sud Sudan, fra i profughi riparati in Ciad, fra i superstiti di massacri orribili, di guerre civili che si protraggono da vent’anni; fra corruzioni e tradimenti, e genocidi, davanti ai quali il mondo ha cercato di volta in volta di girarsi dall’altra parte. In qualche modo ha trovato gli stessi volti, la stessa morte, la stessa fame e la medesima, soprattutto, rocciosa resistenza umana che aveva davanti e intorno a sé l’esploratore condottiero. Ce la racconta tra un capitolo e l’altro della storia, con intermezzi di testimonianza diretta, a specchio di quella tramandata. E resta, a fine lettura, la netta impressione che Quirico, lui che ha testimoniato, vissuto e cercato di capire l’impenetrabilità del male proprio nelle situazioni dove si manifesta con la massima violenza, condivida con Joyce l’idea della storia come incubo da cui ci si vorrebbe o dovrebbe destare.
Resta una domanda chiave: la breve parabola di Gessi (morì cinquantenne, nel 1881, sfiancato da un viaggio di ritorno verso il Cairo) è da archiviare come uno dei tanti fuochi fatui della storia, avventura bella e inutile? No, la conclusione del Pascià è del tutto pragmatica, guarda al futuro: perché Gessi, con la sua vita e la sua morte straordinarie, e le su battaglie e le sue contraddizioni, «pone dopo due secoli un problema moderno».