Corriere della Sera, 12 aprile 2021
Un secolo di Gaio Fratini
A un secolo dalla nascita e a più di vent’anni dalla morte, viene ora proposto un omaggio a tuttotondo per ricordare Gaio Fratini (Città della Pieve, Perugia, 6 settembre 1921 – Orvieto, 31 gennaio 1999), uno dei maggiori epigrammisti del Novecento e non solo.
La sua vena satirica all’acido muriatico, il lessico delle aspre invettive e l’etica missione mordace di scagliarsi contro vizi, meccanismi corruttivi del potere, compromessi, opportunismi, consolidate abitudini delle gerarchie politiche e trasformismi italici, lo rendono a buon diritto legittimo erede di Simonide, Meleagro, Marziale, Orazio e Giovenale. Pur consapevole dell’estrema temporalità degli epigrammi, legati inevitabilmente alla cronaca e alle vicende del quotidiano, da ironico fustigatore Fratini riesce a cogliere il nocciolo, l’elemento immodificabile. Perciò eterna i propri versi grazie al pungente sarcasmo e all’essenzialità, tanto che lui stesso amava definirsi l’«umbro Marziale». Alta e beffarda poesia civile, edificata su di una scabra ferocia. Il volume celebrativo Gaio Fratini, il mio primo centenario (Futura), curato dal fraterno sodale Antonio Carlo Ponti, si avvale della prefazione del giornalista Filippo Ceccarelli, di un’esaustiva cronologia biobibliografica, un folto materiale epistolare inedito per la prima volta preso in esame, significative immagini fotografiche, numerose attestazioni di amici e giornalisti, per chiudere con la commovente postfazione di Vittorio Sgarbi, che tanto si prodigò nel far ottenere a Fratini il vitalizio della legge Bacchelli e che tanto fece per fargli avere il premio Cavallini nel 1997.
Come nasce l’idea di questa pubblicazione, una sorta di postumo risarcimento generato dall’autentico desiderio di riattizzare la memoria dei lettori verso un personaggio caduto in oblio già prima della morte? Da più di un ventennio in una cartella riposava un folto gruppo di lettere, cartoline illustrate e postali, biglietti frammisti a versi d’occasione inviati da Fratini all’amico Ponti e a sua moglie Nerina. Un materiale mai analizzato. A cui si è poi aggiunta una schiera più esigua di missive ritrovate in corso d’opera e spedite a metà degli anni Novanta dal poeta a Filippo Ceccarelli. Senza dimenticare le carte acquisite dall’Italia nel 2014, conservate presso l’Archivio di Stato di Orvieto, nel libro attentamente descritte da Marilena Rossi Caponeri, suddivise in documenti ufficiali, corrispondenze con Diego Fabbri, Enrico Vaime, Gianni Brera, Maurizio Costanzo, Vittorio Gassman, la copiosa attività letteraria e giornalistica, disegni, recensioni, testi teatrali.
Nell’arco di due anni di lavoro il volume, dedicato da Antonio Carlo Ponti alla propria moglie Nerina e ad Arianna Zulian, l’adorante sposa di Fratini, si è trasformato in un impianto commemorativo a più voci, definito dallo stesso curatore «antologia e memoir, album e libro mastro, requiem e celebrazione». Una collettiva testimonianza che include, tra i tanti, Umberto Eco, Beniamino Placido, i giornalisti Camilla Cederna e Pierluigi Battista, il docente d’italianistica Giacinto Spagnoletti, il poeta Plinio Perilli, che lo rammenta moderno Orazio «bighellonante» tra via Veneto, la Rai e i caffè storici di Roma, e infine sulle pagine del «Corriere della Sera» il coccodrillo di Giuliano Gramigna, che lo addita quale «esempio di rettitudine mentale». Sgorga così di conseguenza l’innata e tangibile poliedricità di Fratini, poeta satirico, redattore de «Il Caffè» di Giambattista Vicari dal 1960 al 1992, soggettista e sceneggiatore di film, giornalista, ma anche attore, gagman di Totò, abile tennista, ghost writer, commediografo, commentatore sportivo.
Tra i puntuti ma veraci versi di Fratini, che si distinguono per la battuta finale ad effetto frutto di provetta tecnica fulminante, ricordiamo i sempre attualissimi «Meglio vivere/ un giorno/ da poeta/ che cento/ da assessore» e gli strazianti e profetici «Tu porti piatti carichi/ di sogni/ a un curdo/ che ha per tetto/ l’infinito». Oppure una definizione icastica e melanconica: «Satira è un piangere antico». E ancora: «L’epigramma non sogna che sconfitte:/ muore ogni volta all’alba/ insieme alle sue vittime». Sottolinea Ponti: «Nel Gaio lirico delle prime raccolte una vena crepuscolare non è raro scoprirla». Tuttavia chi esercita l’epigramma non può che essere un intransigente e genuino moralista, uno spirito anarchico, «un illuminista che avrebbe voluto vivere di poesia, libero di volare e di deridere il marcio che alligna nel cuore arido e nel gonfio portafoglio dei potenti».