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 2021  aprile 12 Lunedì calendario

North Stream2, la guerra Usa-Berlino e la sconfitta dell’Ue

Il Presidente statunitense Joe Biden vuole rilanciare la Nato e utilizza toni da Guerra Fredda contro la Cina e la Russia. Il segretario di Stato Blinken ha attaccato Putin, confermando le sanzioni comminate nel dicembre 2019 contro le società che partecipano al progetto North Stream 2. Il gasdotto (quasi completato) che dovrebbe portare gas russo direttamente in Germania è stato definito “un progetto geopolitico russo per dividere l’Europa e indebolire la sicurezza energetica europea”. L’Unione europea dipende dal gas russo per il 40% del suo fabbisogno e assorbe l’80% delle esportazioni russe. Sul totale di circa 200 miliardi di metri cubi (mmc) l’anno provenienti dalla Russia, circa 50 mmc arrivano con il North Stream, completato nel 2011. Il North Stream 2 raddoppierebbe la capacità di importazione tedesca. Il gas naturale nel 1994 ha superato il carbone come seconda fonte energetica Ue, divenendo una componente fondamentale del suo mix energetico.
La controversia sul North Stream 2 contrappone Stati Uniti e Germania in un duello nel quale entrambi hanno torto. Non è da oggi che i presidenti americani si agitano contro l’interdipendenza energetica tra Europa occidentale e Russia. All’inizio degli anni ’60 ce l’avevano col presidente dell’Eni Enrico Mattei, reo di aver importato petrolio russo per svincolarsi dal monopolio delle “Sette sorelle” anglo-americane. Poi arrivò Ronald Reagan che ingaggiò all’inizio degli anni ’80 una feroce battaglia contro la costruzione del faraonico gasdotto che avrebbe portato il gas siberiano in Europa. Nonostante il boicottaggio di Washington, fu completato grazie a tecnologia e acciai speciali europei. Poi è arrivata l’opposizione al North Stream, reo di tagliare fuori Paesi dell’Europa orientale, in primo luogo l’Ucraina, indebolendone così il potere ricattatorio su Mosca.
Se gli strali americani non hanno mai colpito nel segno è perché il “ponte del gas” tra la Siberia e l’Europa ha generato benefici. Gli europei hanno approfittato di una fonte energetica sicura, economica e relativamente pulita (il gas naturale rilascia solo C02 e in quantità minori di carbone e petrolio), nonché di mercati per le proprie esportazioni (la Germania è il secondo partner commerciale russo dopo la Cina). I russi ne hanno ricavato moneta forte che ha consentito loro di alimentare il bilancio pubblico, che dipende per il 40% dai proventi dalle esportazioni di idrocarburi. Questa interdipendenza ha resistito a Reagan, alla fine della Guerra fredda, alla politica muscolare di Putin, alle regole della Commissione europea sul “libero mercato” del gas, alle crisi ucraine e, con tutta probabilità, resisterà anche a Blinken.
Per la Germania il gas russo è stato prima un modo per ricucire gli strappi della “Guerra fredda” (la Ostpolitik di Willy Brandt) poi è rimasto un’architrave della politica estera tedesca. Quando Gerard Schroeder smise la veste di Cancelliere tedesco nel 2005, subito dopo indossò quella di lobbista di North Stream (oggi è presidente della società pubblica russa Rosneft), exploit al cui confronto i ben remunerati sproloqui di Renzi a favore del saudita Bin Salman impallidiscono. Queste relazioni hanno oggi meno ragion d’essere. La domanda di gas naturale nell’Ue è diminuita dal picco del 2010. L’Europa è collegata con gasdotti al Mare del Nord, al Nord Africa, al Caspio e possiede una fitta rete di rigassificatori. Il gas naturale è poi una fonte fossile: non è una “energia di transizione”. La Banca europea degli investimenti bloccherà i finanziamenti alle fonti fossili dal 2022 ed è in corso un accesso dibattito sulla “tassonomia Ue” che si spera tagli fuori la maggior parte del gas naturale dai finanziamenti per lo “sviluppo sostenibile” inclusi quelli del Recovery Plan. Il raddoppio del North Stream ha basi economiche fragili ed è contradditorio in termini ambientali, anche se dovessero adattarlo all’idrogeno (sarebbe “idrogeno blu” prodotto bruciando gas naturale). Per la Russia meglio sarebbe concentrarsi sulle enormi potenzialità del mercato cinese.
Qui i nodi arrivano al pettine. È dallo shock petrolifero del 1973 che si parla di una “politica energetica europea”, mai veramente nata. Quel che esiste sono: target alle emissioni di CO2 (riduzione del 40% rispetto al 1990 e “decarbonizzazione” nel 2050); incentivi alla diversificazione degli approvvigionamenti e alle fonti rinnovabili (32,5% al 2030); mirabolanti progetti per “l’idrogeno verde” da elettrolisi; legislazione per creare una “libero mercato” dell’energia. Non esistono target europei alle importazioni di fonti fossili che, ancora oggi, coprono il 75% del nostro fabbisogno. Sono la sfida del futuro: fornirebbero ai nostri partner indicazioni chiare, prezzi stabili e consentirebbero una pianificazione realistica dell’uscita dalle fonti fossili.