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 2021  aprile 09 Venerdì calendario

Intervista a Paolo Nori - su "Sanguina ancora" (Mondadori)



Per Paolo Nori, i grandi libri sono quelli che "fanno sanguinare"; quelli che aprono, in chi legge, una ferita sul senso del proprio stare al mondo. Sanguina ancora è l’ultimo romanzo dello scrittore parmigiano. Qui la sua passione per i russi si concentra attorno a Dostoevskij - nato quasi 200 anni fa, nel novembre 1821  - di cui Nori scrive non una biografia ma appunto un "romanzo". Storie e opere dello scrittore russo si alternano a volti e fatti della vita di Nori, a ricordi, viaggi e letture, a dolori e amori, a scoperte e delusioni. Il libro, alla fine, diventa l’autobiografia di un lettore, il racconto di come una pagina scritta possa cambiarti l’esistenza, di come i fantasmi letterari prendano vita grazie a uno degli atti più belli che ci siano. Leggere.

Paolo Nori, che cosa sanguina ancora?
"A quindici anni ho aperto un libro di mio nonno, ho cominciato a leggere, non mi sono più fermato. Era Delitto e castigo. Raskol’nikov, il protagonista, a un certo punto si chiede: "Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone?". E lì mi son chiesto: "E io?". Ho avuto l’impressione che quella domanda avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione: sanguina ancora. Per scrivere questo libro ho riletto, dopo tanti anni, Delitto e castigo, e avevo paura".

Perché aveva paura?
"Quel libro mi ha cambiato la vita. E se mi accorgevo, a 57 anni, che non mi piaceva più? Se mi accorgevo di essermi sbagliato? E invece no. Sanguina ancora. Ho avuto di nuovo l’impressione, rileggendo Dostoevskij, di essere vivo, di avere il sangue che mi scorre nelle vene. Sono pochi i momenti della vita in cui mi sento vivo. Quando leggo i russi, quelli bravi, mi succede".

Il sottotitolo del suo libro è L’incredibile vita di Fëdor Dostoevskij. Perché incredibile?
"Perché la vita di Dostoevskij sembra scritta con una scansione narrativa stupefacente. A cominciare dall’inizio. La prima cosa che Dostoevskij fa in campo letterario è tradurre un romanzo, salvo poi accorgersi che era già stato tradotto. Poi c’è la condanna a morte per attività insurrezionale, la revoca all’ultimo minuto della pena, i lavori forzati, l’esilio, le due mogli, il gioco, la povertà e quella morte, nel momento del più grande successo, che sembra scritta a Hollywood".

Lei dice di aver scoperto cose nuove su Dostoevskij, scrivendo questo libro.
"Leggo Dostoevskij da quando avevo quindici anni e continuo a fare scoperte. Per esempio, l’accusa di pedofilia lanciata contro di lui da Nikolaj Strachov in una famosa lettera a Tolstoj. Strachov è stato amico intimo e primo biografo di Dostoevskij. Per scrivere la biografia, ha avuto accesso a documenti in cui ha trovato un appunto che lo riguardava. Dostoevskij ritraeva Strachov come un mediocre, un letterato "con quattro lettori". Da qui la furia di Strachov nella lettera a Tolstoj, in cui descrive Dostoevskij come un pedofilo e un malvagio. Quella lettera è saltata fuori quando Dostoevskij, Strachov e Tolstoj erano già morti. L’unica ancora in vita era la vedova di Dostoevskij, Anna Grigor’evna, che disse una cosa meravigliosa: ’Se Strachov fosse vivo, lo prenderei a schiaffi’".

Dostoevskij è uno scrittore difficile da raccontare?
"Difficile dire chi fosse. Forse, non lo sapeva nemmeno lui. C’è una lettera straordinaria alla moglie Anna, in cui racconta il successo di una sua conferenza su Puškin a Mosca. La sala esplode in una manifestazione di incontenibile entusiasmo e lui rimane stupefatto. È come se, una volta raggiunta la gloria, Dostoevskij avesse dei dubbi sul proprio valore".

André Gide diceva qualcosa di simile.
"Gide diceva che Dostoevskij ha una fortuna: non avere un’idea precisa di se stesso. Questo lo farebbe perdere nei suoi personaggi, assumere la loro voce e dimenticare la propria. Tanto è vero che, per Gide, le lettere di Dostoevskij sono più noiose rispetto ai romanzi. Con la sua voce, Dostoevskij parlerebbe in modo meno affascinante".

A proposito di voci. Michail Bachtin definiva Dostoevskij uno scrittore "polivoco".
"Nei romanzi di Dostoevskij ogni personaggio ha la sua voce e tutti hanno la stessa dignità. Dostoevskij è uno scrittore anarchico: non c’è una gerarchia tra i personaggi. Bachtin parlava di carnevalizzazione, in cui si ribaltano i ruoli sociali e ognuno vale per quello che dice".

Un altro lettore illustre di Dostoevskij che lei cita spesso è il filosofo Vasilij Rozanov.
"Rozanov descrive Dostoevskij come un arciere nel deserto con una faretra piena di frecce che, se ti colpiscono, ti fan sanguinare. Rozanov ha capito una cosa fondamentale. Il miracolo di Dostoevskij non sono le sue idee, ma è il tono, la capacità di eliminare la distanza tra l’autore e il lettore.  Dostoevskij finisce, sempre, per tirarti dentro".

Un esempio?
"Eccone due. Il primo, la frase "io son poi da solo, e loro sono tutti" dell’uomo del sottosuolo. Con poche parole, Dostoevskij fissa un’esperienza che abbiamo fatto tutti: sentirci vittime del mondo intero. Lo fa con una potenza che ancora ci ferisce. La redattrice di questo mio libro in Mondadori ha provato a dire la frase ai suoi ragazzi, 14 e 17 anni, e loro hanno capito perfettamente, si sono riconosciuti nelle parole dell’uomo del sottosuolo. Altro esempio. Il finale dei Fratelli Karamazov. C’è il funerale del bambino morto, Iljuša, e i ragazzi intorno che lo invocano e chiedono a Aleša Karamazov se lo rivedranno nell’aldilà. Aleša dice di sì e i bambini gridano ’Viva Karamazov, viva Karamazov!’. Beh, io nell’aldilà non credo, eppure ogni volta che leggo questo brano non riesco a non commuovermi".

Veniamo ai critici. Vladimir Nabokov pensava che Dostoevskij fosse uno scrittore triviale.
"Sbagliava. Uno può essere un grande scrittore, come Nabokov, ma avere delle idiosincrasie inspiegabili. Ricordo che quando Nabokov cercò di entrare a Harvard, Roman Jakobson si oppose perché non riteneva avesse grandi capacità critiche. A chi gli faceva notare che era un grande scrittore, Jakobson rispose: ’Anche l’elefante è un grande animale, ma sarebbe un buon professore di zoologia?’".

Secondo Tolstoj, Dostoevskij aveva "un’orrenda scrittura".
"Tolstoj aveva un’opinione molto alta di Dostoevskij. L’obiezione sull’orrenda scrittura nasce da un malinteso. Lo ripeto: nei romanzi di Dostoevskij non parla Dostoevskij, parlano i personaggi. Se i personaggi parlano male, Dostoevskij li fa parlare male".

Lei scrive che in Dostoevskij i personaggi malvagi sono più interessanti di quelli buoni. Perché?
"Non è sempre così? I buoni possono dirci come stare al mondo, ma non è una cosa che ci piace. Un cattivo invece ha delle storie da raccontare e Dostoevskij lo ha capito. Stavrogin nei Demòni, il papà dei fratelli Karamazov, Raskol’nikov. Nessuno dei milioni di lettori di Delitto e castigo si preoccupa della vecchia usuraia. Siamo tutti simpatetici con l’assassino".

Nel suo romanzo scrive: "A me piacciono le cose che fanno piangere, come la letteratura russa e le partite del Parma". Perché la letteratura russa la fa piangere?
"Perché i libri veri sono quelli che prima ti fanno piangere e la riga dopo ti fanno ridere. Dostoevskij è così. Molta letteratura russa è così. Luca Bizzarri una volta mi ha chiesto qual è il personaggio più triste di tutta la letteratura russa. Ci ho pensato dieci giorni. È una gara tra olimpionici".

La letteratura russa le ha cambiato la vita. Chi sono gli scrittori russi che l’hanno cambiata come scrittore?
"Tre in particolare: Gogol’, Viktor Chlebnikov e Daniil Charms. Hanno scritture molto musicali. Scelgono le parole per il suono, oltre che per il significato. Senza di loro, credo che scriverei in un modo diverso".

Va spesso in Russia?
"Ogni anno. Organizzo con un po’ di appassionati i Gogol’ Maps a Pietroburgo. Visitiamo il ponte dove hanno rubato il cappotto al protagonista del Cappotto, le case di Anna Achmatova e di Brodskij, il quartiere di Delitto e castigo, il canale dell’inizio di Guerra e pace. È bellissimo".

Spesso nella vita le cose importanti sono frutto del caso. Ha mai pensato: "E se quel giorno del 1977 non avessi preso in mano il libro del nonno?"
"Mio nonno Gaspare era un muratore con la passione per la lettura. Non si addormentava davanti alla tv, ma con la testa su un libro. Aveva libri russi e americani. Hemingway, Fitzgerald, i tascabili Mondadori da 350 lire. Il primo libro che lessi fu Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Ma è stato un romanzo russo che mi ha cambiato la vita. Forse è il caso, forse era destino, anche se la parola destino è difficile da usare. So una cosa: senza i russi, la mia sarebbe stata un’altra vita. Anche mia moglie, Francesca, che studiava Storia dell’Unione Sovietica, l’ho incontrata grazie ai russi".

Il suo libro è un omaggio alla bellezza della lettura, in un momento in cui forse la lettura non è più un’abitudine così popolare. Sente una contraddizione?
"Se trent’anni fa qualcuno mi avesse detto che il mio lavoro sarebbe stato rileggere L’Idiota, avrei fatto i salti dalla gioia. Sono nato nel 1963, sono un uomo del Novecento. Leggere è per me un’esperienza primaria. Non c’è cinema, tv o audiolibro che possa sostituirla. A uno studente americano, una volta, hanno chiesto se avesse letto Bartleby lo scrivano e lui ha risposto: ’Non di persona’. Ecco, io continuo a leggere di persona".