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 2021  aprile 11 Domenica calendario

Il cosmo, i neutrini e la terra

Nel mio caso è stato un film. Un corto, per l’esattezza. L’aula video delle elementari veniva chiamata così un po’ pomposamente, in realtà era una stanza identica alle altre, solo che le veneziane erano sempre abbassate e c’era un piccolo televisore a tubo catodico collegato a un videoregistratore. Che il filmato fosse del 1977, quindi già datato allora, e che fosse un’idea dei coniugi Eames, i designer, quelli della sedia a dondolo in plastica, del corvo e dell’attaccapanni con le palline colorate, l’avrei scoperto molto più tardi. Quel giorno memorizzai solo il titolo, Powers of ten, «potenze di dieci», e la promessa della prima schermata: «Un film che tratta la dimensione relativa delle cose nell’universo. E l’effetto di aggiungere uno zero».
È il primo ottobre e una coppia sta facendo un picnic in riva al lago, a Chicago. Il disegno a righe del plaid viene inquadrato dall’alto. L’uomo, appesantito dal pranzo, si corica e si addormenta, mentre la macchina da presa si allontana da lui. Ogni dieci secondi, spiega la voce fuori campo, verrà aggiunto uno zero alla scala di grandezza che stiamo osservando. Se la prima inquadratura mostrava un’area di un metro per un metro, la seconda sarà di dieci metri per dieci, la terza di cento per cento, e così via.
Nell’aula video della scuola elementare, dove bisognava stare in silenzio assoluto per sentire qualcosa, guardavo la coppia al parco farsi minuscola, rapidamente invisibile, e mi sembrava di staccarmi dal terreno, sempre più in alto, sempre più lontano. Ecco il parco per intero, ecco tutta Chicago con il grande lago Michigan, ecco il Nord America e ora la Terra sferica; ecco l’orbita della Luna, il sistema solare, mentre l’inquadratura successiva – con un lato di dieci milioni di milioni di metri — incorporava anche l’orbita di Plutone, a quel tempo considerato ancora un pianeta a tutti gli effetti. Mentre la voce fuori campo continua a descrivere quello che vediamo, il Sole si perde fra le innumerevoli stelle della Via Lattea, e infine anche la Via Lattea con la sua spirale gassosa diventa solo una delle innumerevoli galassie del cosmo. Una lonely scene, dice la voce per descrivere il vuoto interstellare dove le luci sono sempre più rare, e io bambino avvertii d’un tratto tutta la solitudine dello spazio silenzioso e scuro dell’universo.
Ma non era finita. Raggiunta l’estensione dell’universo stesso, all’improvviso, il video precipita indietro e a velocità vertiginosa torna sulla Terra, al picnic, dove l’uomo è ancora addormentato. Da quel momento in poi le inquadrature si restringono. Un centimetro per un centimetro, un millimetro per un millimetro. La videocamera si concentra sulla mano dell’uomo, sulla tassellazione irregolare dell’epidermide, sulle cellule che la compongono, poi entra nelle cellule stesse e ne svela la struttura, la doppia elica del Dna. Non basta. Più dentro ancora, gli atomi; più dentro ancora, i protoni e i neutroni, fino alla scala di lunghezza minima concepita dalla meccanica quantistica. A quel punto sono senza fiato.
Nell’aula video qualcosa fa clic, la mia vita cambia per sempre, tanto che alla sera racconterò del filmato ai miei genitori, io che in casa non racconto mai nulla. Secondo il film, il paesaggio nella profondità della materia organica è identico a quello delle galassie: una distesa di buio interrotta da poche luci distanziate. Come se ci fossero universi interi contenuti all’interno di ogni singolo atomo del nostro corpo. L’infinitamente piccolo assomiglia all’infinitamente grande. Il microcosmo al macrocosmo. Sarei diventato un fisico e avrei capito perché.
Radiopurezza
Trent’anni dopo percorro la A24 da Roma verso L’Aquila, in una giornata tersa di gennaio. Fermandomi per fare benzina rivolgo per qualche secondo la faccia al sole. In città è piovuto per una settimana di fila e questa luce sembra una novità, la promessa di qualcosa. Essere un fisico delle particelle significa, quando chiudi gli occhi così e ti godi il calore dei raggi solari, ricordarti fugacemente che quei raggi sono pacchetti di fotoni emessi come risultato della fusione di protoni all’interno del Sole, la cui pressione, insieme alla pressione del gas che circonda il nucleo, permette alla stella di non collassare su sé stessa. Pensarlo, anzi doverlo pensare, non toglie nulla al piacere dei raggi, e comunque non puoi farne a meno. È un modo di ragionare che non ti abbandona più, anche se sono anni che non ti occupi di fotoni, di fusione nucleare e di stelle.
L’indicazione per la parte in superficie dei laboratori nazionali del Gran Sasso si trova sotto quella del progetto C.a.s.e. di Assergi, uno dei tanti complessi antisismici, sostenibili ed ecocompatibili tirati su dopo il 2009. Tutto, in questa parte d’Italia, conserva memoria del terremoto. Le C.a.s.e. dovevano essere una soluzione transitoria, ma in molti hanno deciso di non andarsene, così ora sono semplicemente case. Home is where the heart is.
Ai laboratori ascolto il briefing sulla sicurezza, sotto lo sguardo corrucciato di Ettore Majorana nella solita fotografia. Dopodiché Roberta mi scorta in jeep verso i tunnel. Nel suo caso, nel caso di Roberta, è stato un libro, Cosmo di Carl Sagan, che ha letto a dodici anni. È diventata astronoma, poi ha deviato leggermente dal percorso e ora si occupa delle relazioni con l’esterno dei laboratori. Chi viaggia abbastanza per le autostrade italiane ha di certo notato l’ingresso dei tunnel, uno svincolo che ti compare davanti nel mezzo della galleria del Gran Sasso, e che conduce qualche decina di metri più avanti a una severa porta di metallo, sempre chiusa. Roberta mi spiega che quella porta è stata progettata per resistere almeno due ore intatta a una temperatura di duemila gradi. Se dovesse scoppiare un incendio in galleria, si attiverebbe una cascata alle sue spalle, un «effetto Niagara» per sbarrare il fuoco. È il genere di porta che in un film d’azione nasconderebbe esperimenti militari volti alla distruzione dell’umanità.
Forse anche per questo i laboratori sono periodicamente nel mirino di chi sospetta attività innominabili al loro interno. Gruppi ambientalisti, gruppi No Nuke, gruppi No Tav. A un certo punto ci si sono messe anche Le iene e, ovviamente, il Movimento 5 Stelle. Un incidente ambientale c’è stato, in effetti, nel 2002, uno sversamento di trimetilbenzene, tossico per gli organismi acquatici, nella rete idrica. Da allora i protocolli di sicurezza sono stati rafforzati. Si è trattato di un danno meno grave di una miriade di altri che avvengono ogni giorno nel disinteresse collettivo, ma tutti assumono un’aria compunta, vagamente colpevole, se si fa riferimento a quella circostanza. Perché qui si effettuano misure di precisione, qui la precisione è un concetto fondante, che finisce per diventare un’attitudine morale.
Ci addentriamo nel tunnel, che ha pareti di roccia nuda, fradicia e striata di muffa verde. Un sistema di pompaggio estrae in continuazione l’acqua in eccesso. Quanto all’aria respirabile, viene insufflata dall’esterno dalle condutture poderose che corrono lungo l’autostrada. L’ambiente che negli anni Ottanta la scienza italiana ha deciso di scavare qui sotto è interamente artificiale, ostile a qualsiasi forma di sopravvivenza. So che in questo momento c’è un chilometro e mezzo di montagna compatta sopra la mia testa, altra roccia ai lati e chiaramente sotto, eppure non avverto alcun senso di oppressione. Il tunnel è ampio e si allarga quasi subito in hangar dai soffitti altissimi, dove si trovano gli esperimenti, ognuno con il suo rivelatore di particelle unico al mondo. Per un attimo mi viene da pensare a una cattedrale sotterranea, dove si celebrano culti clandestini.
Quelli del Gran Sasso sono i più grandi laboratori sotterranei del mondo. Ne esistono altri, come a Sudbury, in Canada, dove gli scienziati scendono al mattino in ascensore con i minatori, ma nessuno è comparabile in taglia. Solo la Cina promette di costruirne uno ancora più imponente, ma parlando con Roberta e con il resto dello staff si avverte un certo unanime scetticismo sul fatto che, alla fine, potranno davvero competere nei risultati.
La fisica sperimentale ha una vocazione innata per l’estremo. Inventa cattedrali dall’architettura impossibile in luoghi impossibili: satelliti lanciati in orbita solare che devono formare un perfetto triangolo equilatero a distanza di cinque milioni di chilometri l’uno dall’altro; un anello di 27 chilometri che accelera protoni sotto i pascoli svizzeri e li fa scontrare a energie vertiginose; sensori piantati in profondità nel ghiaccio al Polo Sud. Tre anni fa, in Cile, ho visitato l’esperimento Alma, in cima a un altopiano, nel nulla del deserto di Atacama: una rete di radiotelescopi a più di cinquemila metri di altitudine, dove la saturazione di ossigeno è bassa, i raggi ultravioletti penetranti e bisogna irrorarsi in continuazione la faccia e le mani di crema solare.
Ma questa vocazione per l’estremo non è fine a sé stessa. La fisica che si poteva fare in casa o negli scantinati delle università, puntando i telescopi dalla finestra o lanciando oggetti dalla torre degli Asinelli, è stata esplorata per intero. Non ci riserva più alcuna sorpresa. Ora si tratta di rilevare fenomeni lontanissimi nello spazio cosmico oppure nascosti nella struttura microscopica degli atomi, segnali debolissimi ed elusivi: l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo che mi lasciarono senza fiato guardando il film degli Eames. Per riuscirci, serve purezza. Bisogna ridurre il rumore circostante al minimo, che si tratti del rumore acustico propriamente detto, di rumore luminoso, di rumore chimico o di qualunque altro disturbo.
Immaginate di dover scovare un puntino grigio, sbiadito, grande come un segno di matita e in continuo movimento, sulla parete di un palazzo. L’unica speranza è che quella parete sia perfettamente bianca. Bianca, liscia e uniforme. Per questo si va in cima alle catene montuose per osservare i segnali delle stelle remote. Per questo si manderanno i satelliti in orbita per afferrare le onde gravitazionali, increspature leggerissime dello spaziotempo che abitiamo. E per questo sono stati scavati degli hangar qui, sotto la montagna più maestosa della dorsale appenninica.
La purezza che si cerca ai laboratori del Gran Sasso è di un tipo inconsueto: è radiopurezza. Assenza di radiazioni ambientali. Perché ovunque ci troviamo, sempre, siamo investiti di radiazioni. Non solo i fotoni del Sole, ma ogni altra particella che proviene dal cosmo e dalla Terra stessa segue la sua velocissima traiettoria trasparente. Una pioggia costante di muoni e pioni e particelle alfa e metalli in arrivo dalle stelle lontane; i raggi emessi dalle tracce di isotopi radioattivi del suolo – torio, uranio, radon – e quelli squisitamente antropici del cripto-85, un elemento che in natura quasi non esisteva, ma di cui gli esperimenti nucleari del secolo scorso hanno imbottito l’atmosfera. Tutto emette radiazione, noi stessi ne emettiamo. Se in mezzo a questo bombardamento vogliamo distinguere le particelle più elusive di tutte, quelle che interagiscono solo di rado – i neutrini e le particelle di materia oscura —, allora bisogna eliminare le altre. Silenziare la radiazione. La montagna è un buon metodo, e questa montagna in particolare lo è, con la sua roccia caratteristica che fa da guscio naturale agli esperimenti.
A volte penso che la fisica delle particelle mi manchi soprattutto per questo: per la ricerca estenuante di una purezza che non è disponibile altrove. Per la caparbietà con cui prova a distinguere i segnali significativi, anche i più sfuggenti, dal rumore di fondo che li sovrasta. Altre volte mi sembra, al contrario, che questa pretesa di purezza sia esattamente il motivo per cui me ne sono allontanato, per tuffarmi invece nel rumore e sprofondarci, perché forse è lì, nel rumore, che si trova la vita autentica. A ogni modo sono qui, oggi, ho aspettato di venirci per anni, e nell’atmosfera artificiale dei tunnel mi sembra, per un attimo, di respirare meglio che fuori.
Acchiappare i raggi
Per studiare il cosmo si guarda attraverso le lenti dei telescopi, si lanciano satelliti oppure sonde nello spazio aperto, che non torneranno mai più indietro e che portano messaggi di pace in molte lingue per le comunità extraterrestri che magari incontreranno. Ma per studiare il cosmo, e questo è decisamente meno ovvio, bisogna anche scendere sottoterra.
Nicola lavora all’esperimento Borexino. Nel suo caso è stato lo sceneggiato Rai I ragazzi di via Panisperna, che da bambino gli diede le vertigini. A portarlo nella profondità dei laboratori ha contribuito invece, più prosaicamente, il terremoto. Nicola studiava Fisica all’università dell’Aquila, per la sua carriera aveva progetti diversi dai rivelatori sotterranei, ma l’edificio dell’università era danneggiato, gli studenti sono stati trasferiti momentaneamente ai laboratori e lui non se n’è più andato.
Borexino è l’esperimento di maggior successo tra quelli in attività. A novembre 2020 si è guadagnato la copertina di «Nature» con il titolo Catching the rays, acchiappare i raggi. Dire «copertina di “Nature”» sembra nulla, ma per un esperimento è l’analogo di avere il proprio ritratto su «Time», significa all’incirca: la scoperta più importante del mondo fra tutte le scoperte di tutti gli ambiti scientifici di questa settimana è Borexino.
La cover della rivista mostra ciò che adesso è inaccessibile allo sguardo, l’interno del rivelatore, una sfera metallica sulla quale sono montati dei fotomoltiplicatori, delle specie di lampadine che lo rendono molto simile, nella sua perfetta simmetria radiale, all’osso di un riccio di mare. Ammetto che una parte di me sperava, contro ogni ragionevolezza, non solo di vedere ma addirittura di poter entrare nel rivelatore di Borexino. Una fissa che ho da quando mi mostrarono l’immagine al corso di cosmologia. A ognuno i propri desideri irrealizzabili.
Nicola mi parla con fin troppa scioltezza della teoria che sta alla base dell’esperimento, confida che la mia competenza sia ancora intatta dopo 15 anni di tutt’altro. Un po’ soffro che non sia così e un po’ mi vergogno di mostrarlo, perciò faccio del mio meglio per dissimulare mentre arranco dietro le sue parole. Ma almeno il nucleo del ragionamento mi è chiaro. Il Sole genera luce. Quella che chiamiamo luce solare è per lo più luce propriamente detta, ovvero raggi gamma, fotoni emessi nel processo di fusione all’interno della stella. Ma la fusione, che venne teorizzata già negli anni Trenta del Novecento, si compie in molti passaggi successivi e in alcune versioni alternative. E, insieme ai fotoni, produce una quantità di altre particelle energetiche. Soprattutto neutrini. Per dare un’idea di quanti: dal Sole ci arrivano addosso all’incirca sessanta miliardi di neutrini per centimetro quadrato al secondo. Sessanta miliardi di neutrini per centimetro quadrato al secondo. Nel tempo impiegato a riscrivere queste poche parole, quindi, sono stato attraversato da qualche migliaio di miliardi di neutrini. Non mi hanno fatto nulla, non me ne sono accorto, perché i neutrini sono le particelle che interagiscono meno di tutte. Se non interagiscono, non si manifestano. Se non si manifestano, è come se per noi non esistessero. Eppure ci sono. I neutrini solcano il cosmo, la materia e noi, pressoché indisturbati, indifferenti.
Non vale lo stesso per i fotoni. I fotoni interagiscono con i nuclei, con gli elettroni e con gli altri fotoni, infatti li sentiamo. Anche all’interno del Sole vengono continuamente assorbiti e riemessi e deviati. Immaginiamo i raggi solari procedere dritti, ma dentro una stella il loro è un percorso a ostacoli, uno zigzag estenuante. Un fotone creato al centro del Sole nel processo di fusione impiega qualcosa come un milione di anni per raggiungere la superficie solare. Un milione di anni. Quando ci raggiunge è ormai luce antica. A un neutrino bastano pochi secondi.
Per capire cosa succede dentro il Sole, nel suo centro, ci interessano quindi i neutrini più di tutto il resto. Ma per acchiapparne qualcuno, una trentina al giorno tra quegli infiniti miliardi che passano, occorre venire qui, sotto la montagna, dove tutta l’altra radiazione è stata cancellata; occorre sospendere una sfera di metallo dentro un bagno di acqua distillata e radiopurissima, occorre lavorare per un decennio alla calibrazione della sfera e dei suoi fotomoltiplicatori, occorre spendere qualche decina di milioni di euro, e quando tutto è finalmente pronto, occorre guardare ogni rara, minima scintilla che i neutrini creano con il loro passaggio. Ecco Borexino, l’acchiappaneutrini.
Cuore di tenebra
Se dei neutrini si conosce poco, della materia oscura non sappiamo nulla. Soltanto che c’è. Da qualche parte, forse ovunque. Probabilmente ci siamo immersi dentro, tutta la nostra galassia ci è immersa. Altrimenti, due o tre cose che osserviamo della realtà non tornerebbero. Ma dopo anni di ricerche la materia oscura è rimasta tale, oscura, non si è manifestata in nessuna misura e in nessuna delle forme ipotizzate dalla teoria. È una particella? È molto pesante? È molto leggera? O è qualcosa di diverso da una particella, qualcosa che fatichiamo a concepire? Ci sono svariati esperimenti, qui sotto la montagna, dedicati a dare la caccia a questo fantasma cosmico. Ed è una strana condizione esistenziale, a rifletterci. Ore, giorni, anni, magari tutta la propria carriera dedicata ad attendere un segnale. A rincorrere spettri.
Paolo ci scherza su, ironizza sulle sue giornate nel tunnel, sotto la luce dei neon, dove è sempre la stessa ora; giornate passate ad aspettare un’evidenza minima di materia oscura che forse non vedrà mai, perché magari non è dove tutti se l’aspettano. Nel caso di Paolo è stata una persona, un’amica di famiglia che quando lui aveva 15 anni andò a trovarli e gli raccontò di quello che faceva a Los Alamos. Gli parlò degli atomi. Chissà, forse oggi Paolo maledice in parte quel momento, anche se non oso chiederglielo, anche se la fisica, al di là della frustrazione, lo appassiona ancora, si vede. Quando arrivo sta imprecando perché ha appena «fritto l’esperimento» per una manovra sbagliata. Parlando con me, oppure tra sé e sé, dice con un po’ di amarezza che noi vediamo solo una copia imperfetta di una natura perfetta. Oppure viceversa, non ne è più così sicuro.
Paolo si divide tra gli esperimenti Cresst e Cuore. Ecco un’altra caratteristica della fisica delle particelle: cercare sigle maneggevoli per concetti altrimenti inaccessibili. Cresst sta per Cryogenic rare event search using superconducting thermometers («Ricerca criogenica di eventi rari con termometri superconduttori»), Cuore per Cryogenic underground observatory for rare events («Osservatorio sotterraneo criogenico per eventi rari»). In comune hanno quindi la rarità degli eventi che cercano – materia oscura nel caso di Cresst, neutrini di Majorana in Cuore – e il fatto di averlo sul serio, un «cuore», un cuore straordinariamente freddo composto da cristalli cubici oppure cilindrici, ognuno delle dimensioni di un fermacarte. Cristalli che vengono mantenuti immobili in una teca, ma non «immobili» nel senso approssimativo che attribuiamo normalmente al termine: immobili al punto che i singoli atomi del reticolo cristallino sono (quasi) fermi.
Riuscite a immaginare cosa voglia dire bloccare un singolo atomo? Ci si può riuscire solo eliminando qualsiasi interferenza esterna e poi raffreddando la materia molto vicino allo zero assoluto. Lo zero assoluto, cioè zero gradi Kelvin, cioè -273,15 gradi centigradi, è il limite in cui tutto diventa inerte, in cui i nuclei arrestano ogni loro movimento intrinseco e gli elettroni smettono di orbitare. È la morte della materia, un limite irraggiungibile per definizione. Ci si può arrivare solo vicino, anche molto vicino, Cresst e Cuore lo fanno, raffreddano i loro cristalli fino a pochi millikelvin con iniezioni di elio liquido e sistemi complicatissimi di pompaggio.
Paolo è un maestro della criogenia, un imbalsamatore di atomi. Dopo aver «fritto» momentaneamente Cresst, mi accompagna verso il cuore di Cuore. Mentre saliamo i gradini, con la riverenza che si avrebbe per una reliquia, mi raccomanda di poggiare i piedi con delicatezza, perché la mia malagrazia sarebbe sufficiente ad alterare la temperatura dei cristalli a metri di distanza e dietro strati e strati di piombo.
Scosse
Siamo portati a immaginare un laboratorio di fisica delle particelle come un luogo asettico, ordinato, con interni bianchi e schermi trasparenti da cui piovono righe di codice. È il pregiudizio di bellezza e impalpabilità che i film hanno attribuito alla scienza.
In realtà, gli esperimenti di fisica assomigliano molto più a delle officine: cacciaviti e chiavi inglesi, garbugli di cavi, cinghie e moschettoni, cassette zeppe di tester impolverati e rotti, materiale antinfortunistico, rotoli di nastro isolante, monitor tutt’altro che all’avanguardia e appunti che dicono di «Non toccare assolutamente questo» e «Non fare quest’altro». Nessuna concessione superflua all’estetica, la strumentazione è aderente allo scopo. La bellezza è tutta nascosta al centro del rivelatore, quella di Cuore nei cristalli di biossido di tellurio. La bellezza, nella fisica moderna, è quella intrinseca e invisibile della natura che si cerca di desumere con sforzi eccezionali. E attorno a quella bellezza ci si arrangia come si può. «Vedi?», mi indica Laura, «vedi quelle specie di contrappesi fatti con la spugna e il nastro isolante? Sono stati il mio lavoro dell’inverno, per ridurre delle vibrazioni che non riuscivamo a eliminare».
Per il momento Cuore non ha visto nessun neutrino di Majorana, una sottospecie di neutrini la cui esistenza venne ipotizzata dal fisico in un articolo visionario che all’epoca non fu preso troppo sul serio. In compenso, non ha mancato un terremoto. Nel settembre 2017 io mi trovavo a Querétaro, una cittadina a un paio d’ore da Città del Messico. Dormivo in hotel e il terremoto non mi ha svegliato. Ho saputo quel che era successo dal numero impressionante di messaggi che ho trovato al risveglio, messaggi che mi chiedevano se fossi ancora vivo. Laura, qui a L’Aquila, è stata allertata dai cristalli. A causa della scossa messicana, la temperatura nel criostato di Cuore è cambiata, con circa 28 minuti di ritardo, il tempo necessario alle onde di pressione per attraversare mezzo pianeta.
Laura viene allertata ogni volta che c’è una scossa sismica da qualche parte. È lei la vestale del rivelatore. È romana, figlia di scienziati, ha un postdoc a Berkeley e nel suo caso si è trattato della professoressa di fisica dell’ultimo anno di liceo. Usa disinvoltamente parole come «isoentalpico», ma s’imbarazza non appena parla di sé. La prima volta che è venuta in missione ai laboratori del Gran Sasso era inverno, c’era neve dappertutto e lei aveva un’auto da città alimentata a gpl. Nel post terremoto era tutto chiuso, quindi si è trovata confinata in un bed&breakfast di mezza montagna. Ha giurato a sé stessa che non sarebbe tornata mai più. Adesso ci vive. È reperibile per Cuore tutti i giorni, 24 ore su 24. Se alle tre del mattino c’è una scossa sismica in Croazia, si alza dal letto, si connette da remoto per capire cosa sta succedendo e se è necessario viene qui nel tunnel, da sola in questi anfratti, tra le pareti lugubri, a prendersi cura del «suo» rivelatore.
Devo insistere perché mi permetta di entrare nella camera pulita, la zona priva di contaminazione in cui sono stati assemblati i pezzi di Cuore. Ci vestiamo con i camici di carta, le cuffie, i copriscarpe. Laura si appunta un sensore di ossigeno al colletto. La camera pulita è isolata dall’aria esterna e dentro ci sono liquidi criogenici, che a contatto con l’aria si espanderebbero così tanto e così rapidamente da provocare asfissia. Paolo, vedendoci da fuori, sarebbe obbligato dalle norme di sicurezza a non entrare.
L’abbigliamento che stiamo indossando assume quest’anno una connotazione specifica un po’ tetra, con le cerniere blu e i copriscarpe e i guanti in lattice. Mi paralizzo per un momento. Laura indovina il mio pensiero e mi anticipa: «In primavera abbiamo donato tutta la nostra dotazione di camici e protezioni agli ospedali abruzzesi». Poi mi fa strada nella stanza più radiopura nel raggio di centinaia e centinaia di chilometri.
Patatine fritte e universi a bolle
Nello ci dà un passaggio in macchina verso la superficie. Viene da Turi, in Puglia, e nel suo caso è stata una propensione naturale per la matematica. In macchina ha decine di bottiglie di plastica vuote, formano una montagnola nello spazio sotto i sedili. Ci appoggio con cautela i piedi, ma non oso indagare sul motivo della loro presenza. Nel viaggio si parla, ovviamente, di contratti e posizioni accademiche, l’argomento più in voga per ogni scienziato di carriera. Ma nel discorso vengono nominati, quasi distrattamente, gli universi con bolle di antimateria, la leptogenesi e i gas di annichilazione. Poi, con una certa animosità, mi raccontano che il giovedì ai laboratori è sempre stato il giorno delle patatine fritte, lo si aspettava con una certa trepidazione. La nuova gestione della mensa ha portato una svolta salutista che nessuno voleva, e quando il fritto è sparito dal menu, insieme alle patatine del giovedì, i ricercatori e lo staff hanno fatto un’azione di protesta congiunta per riaverle.
L’impatto con la luce fuori dal tunnel è sferzante. Sottoterra ci si trasforma in animali un po’ diversi, basta poco tempo. Eppure mi accorgo che qui, in macchina con questi ragazzi che in una vita alternativa sarebbero stati miei colleghi, il mio corpo si sta rilassando, nonostante le bottiglie di plastica che scricchiolano sotto le scarpe. Sono a mio agio, sto bene. Quasi che il mio corpo li riconoscesse nonostante tutto, come colleghi.
Al penultimo anno di università, il professore di Teoria dei campi, il più temuto fra tutti, era entrato in aula. Prima di iniziare a riempire lavagne di conti inesorabili e silenziosi, ci aveva invitato a riflettere sul fatto che Gerard ’t Hooft, un fisico olandese, avesse vinto il Nobel per un articolo pubblicato quando aveva 25 anni. Noi quanti anni avevamo? Già 22? Non era il caso allora che riconsiderassimo attentamente le nostre possibilità di riuscita in quell’ambito? Ho sempre ammirato il coraggio della sua schiettezza, lo ammiro ancora, e non escludo che la mia divergenza dalla fisica sia iniziata proprio quella mattina, sotto forma dello sconforto che il professore riuscì a inoculare. Eppure, mi rendo conto mentre ci lasciamo per l’ennesima volta alle spalle la pendenza scoscesa del Gran Sasso brillante di neve, la fisica non era solo questo. Non era solo riuscire a scoprire qualcosa. Se la vedevo così allora, era perché ero troppo giovane e ambizioso. C’era molto altro.
Con le persone che sono con me in questa macchina, con Paolo, Laura, Nello, che non conoscevo fino a poche ore fa, condividiamo qualcosa di primigenio. Una curiosità, una fascinazione, non saprei come chiamarla: quel momento che sta all’origine dell’essere qui. Ecco cosa mi manca oggi. Mi manca il linguaggio segreto. Mi mancano le bolle di universo di cui la scienza è fatta e di cui questi laboratori-caverne sono un’esemplificazione perfetta. Vivere per molte ore al giorno dentro uno spazio che è altro rispetto all’esistenza comune, che è altro geograficamente e mentalmente. Un luogo radiopuro, radioprotetto dalle complicazioni umane. Almeno un po’.
Due anni fa ero a Oslo per il cinquantenario dell’allunaggio. A una mostra sulla Luna, in una stanza di passaggio, mi sono trovato davanti al cortometraggio degli Eames sulle potenze di dieci. Mi ha colto di sorpresa. Non l’avevo più rivisto da quella mattina alle elementari, ma è bastata una manciata di fotogrammi per riconoscerlo. Ero da solo e l’ho guardato per tre volte di fila dall’inizio alla fine, finché la commozione, dopo aver raggiunto il suo culmine, è scemata. Allora sono passato alla sala successiva ed è stato come fare un passo fuori da un passato a cui non avevo mai davvero rinunciato.
Si dice spesso che bisognerebbe scrivere solo di ciò che si conosce bene, ma non è così. Perché scrivere è rinunciare costantemente a qualcosa, e ciò che si conosce troppo a fondo, ciò che si rispetta troppo, non ammette le rinunce necessarie. Bisognerebbe scrivere di ciò che si conosce appena, invece. Se ho deciso di venire qui, per raccontare come si guarda al cosmo da sottoterra, è perché mi sembrava di aver dimenticato abbastanza. Di essere abbastanza incompetente per poter, finalmente, raccontare.
Cattedrali
Uno dei crucci di chi si occupa di fisica delle particelle è di non riuscire mai a spiegare cosa fa, cosa studia, cosa cerca, se non per analogie insoddisfacenti. Soprattutto, è difficile spiegare perché lo cerca. La materia oscura serve a qualcosa? Dai neutrini posso trarre qualche beneficio? In un mondo concentrato ossessivamente sulle finalità di ogni azione, serve una buona scusa anche per occuparsi del cosmo. Così, chi dedica la sua vita a inseguire le onde gravitazionali si affanna a dire che senza la relatività generale non funzionerebbero i navigatori satellitari. Chi fa esperimenti di superconduzione promette che prima o poi miglioreranno l’efficienza dei microchip. E chi si rompe la testa sui fondamenti teorici della meccanica quantistica, uno degli ambiti più concettuali che ci siano, deve spiegare la propria perversione con la promessa che i computer quantistici ci faranno navigare in internet molto più in fretta di così. Giustificazioni parziali, svilenti.
Anche qui ai laboratori del Gran Sasso ne hanno di pronte, scuse preconfezionate per i visitatori. Quando i ricercatori sentono che è arrivato uno di quei momenti, che sono incappati nella domanda giornalistica sull’a-che-cosa-serve-tutto-ciò, il loro sguardo si spegne appena. Prendono fiato e iniziano a sciorinare la versione ufficiale, fintamente entusiasti. Scavare buchi in una montagna è necessario, sì, sviluppare tecnologia nuova e spendere decine di milioni in esperimenti sui neutrini ha un’utilità pratica, certo che ce l’ha. E cosa ce ne facciamo della materia oscura? Be’, questo è più difficile da immaginare, almeno per il momento, ma all’inizio nessuno sapeva cosa farsene neppure delle onde elettromagnetiche, e insomma si è visto che poi bla bla bla.
Mentre ascolto e non ascolto, mi chiedo: e se anche non fosse? Se non ci fosse nessuna utilità pratica al cercare neutrini sottoterra? Se la materia oscura, una volta trovata, non dovesse servire a niente? Non sarebbe comunque sufficiente di per sé? Ci passa mai per la testa di domandare a cos’è servito costruire certe cattedrali magnifiche, la Sagrada Familia e Notre-Dame? Capire come viene prodotta energia all’interno del Sole, il processo che più di ogni altro è alla base della nostra esistenza, comprendere di cosa è fatto l’alone cosmico in cui siamo immersi, descrivere con precisione lo spiraleggiare della nostra galassia, aspettare la prossima esplosione di supernova e poterne ricostruire, attraverso l’eco remota di neutrini, la dinamica abbagliante e catastrofica: non è sufficiente tutto questo? Davvero non lo è?