Corriere della Sera, 11 aprile 2021
Svelato l’omicidio di Takabuti di 2.600 anni fa
È un’indagine complessa su un caso d’omicidio irrisolto. Avvenuto 2.600 anni fa nella splendida Tebe, l’antica città egiziana. Al centro della storia c’è Takabuti, una giovane appartenente ad una famiglia importante. Il padre, Nepore, era un sacerdote, un uomo in vista, al suo fianco la moglie Taserinit. Dovevano essere benestanti. Una vita normale sconvolta da un gesto di violenza: l’uccisione brutale della figlia. Primo atto di un giallo che ci porterà lontano.
La vittima è chiusa in un prezioso sarcofago, con sopra indicazioni generiche sul suo passato, e poi è inumata in una tomba vicino al tempio dedicato alla famosa Hatshepsut. Resterà in pace fintanto che qualcuno non si impossessa della salma e la mette in vendita in un mercato. Un tesoro destinato a passare di mano. Nel 1834 il commerciante Thomas Gregg, in occasione di un viaggio, la compra e la porta a Belfast dove diventa un’attrazione. Quel guscio decorato non passa inosservato, suscita interesse e curiosità. Tutti vorrebbero sapere di più, ma non ci sono gli strumenti necessari. Serve pazienza, bisogna aspettare tempi più vicini a noi. Un grande balzo nella Storia, con le distanze accorciate dalla tecnologia e dalla volontà.
I resti di Takabuti sono finalmente osservati con metodi moderni, con i ricercatori che si muovono come agenti della Scientifica. E arrivano le sorprese. La mummia della giovane non ha la testa rasata, ma conserva ancora i suoi capelli, «reperto» che sarà presto analizzato. Poi i dettagli su come è stato preparato il corpo confermano la sua appartenenza ad un ambiente ricco.
Gli specialisti procedono utilizzando diversi sistemi: ricerca del Dna, raggi X, la Tac e uno studio delle proteine rimaste in piccoli frammenti di materiale. Incrociano il sapere scientifico con quello degli egittologi, fanno progressi importanti. Stabiliscono con una certa precisione l’età: 20-30 anni. Ritengono che fosse sposata. Aveva un dente e una costola in più. Il suo Dna rivela una lontana origine «europea» e, grazie all’analisi dei capelli, affermano che non era affetta da patologie particolari. Ma la cosa più importante è che individuano uno strano «grumo» in una cavità del petto, si concentrano su questo punto rilevando che è fatto di resina e lino. Un elemento che li porta a riconsiderare l’intero quadro.
Quella «massa» è servita a nascondere le tracce di una ferita. Un colpo micidiale inferto alle spalle della donna, sulla parte sinistra. Il mosaico egizio prende un’altra forma e colore: i segni dell’aggressione confermano la teoria che sia rimasta vittima di un’agguato. Un attacco magari avvenuto in uno dei palazzi di Tebe all’epoca della venticinquesima dinastia. Ma in quali circostanze? Il primo verdetto suggerisce un delitto dove è stato utilizzato un pugnale, una lama affondata nella schiena della vittima. Forse la giovane è stata colta di sorpresa da qualcuno che conosceva, un gesto di violenza e di rabbia. Sono, però, supposizioni intermedie. In questa vicenda coloro che indagano continuano a cercare conferme. Ed arriviamo alla terza puntata della «serie».
La professoressa Rosalie David dell’Università di Manchester e la sua collega Eileen Murphy della Queen’s University di Belfast, da tempo impegnate nello studio della mummia, rivedono le conclusioni, riesaminano gli indizi e propongono un atto finale diverso. Takabuti è stata trucidata da una sorta di ascia da guerra, usata soprattutto dai combattenti assiri e poi adottata anche da soldati locali. Un lavoro di inchiesta affascinante narrato nel libro The Life and Times of Takabuti in Ancient Egypt.
Le studiose-poliziotte hanno il cadavere, la sua identità e l’arma. Manca il colpevole. Un mistero difficile da risolvere anche per gli archeologi più determinati. Un caso irrisolto nell’archivio infinito di una civiltà che continua a donarci pagine affascinanti.