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 2021  aprile 11 Domenica calendario

Mario Segni nel nome del padre

Il libro – in uscita da Rubbettino – si intitola Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news . Ma potrebbe intitolarsi come un grande film con Daniel Day Lewis: Nel nome del padre . Mario Segni ha impiegato tre anni a scriverlo; ma lo pensa e lo prepara da tempo, almeno da quando sul padre Antonio – eletto presidente della Repubblica nel maggio 1962, costretto a dimettersi nel dicembre 1964 per le conseguenze di una trombosi – si è allungata l’ombra del «piano Solo», del «colpo di Stato» per mettere fuori gioco i riformisti e depotenziare il centrosinistra. 
Racconta Segni che la spinta a scrivere gli venne dal quarantennale dell’assassinio di Aldo Moro. «Comparvero molti articoli, anche di giornalisti di area moderata, che a proposito della crisi del luglio 1964 riprendevano il vecchio racconto del golpe: un atto eversivo – minaccia o pressione militare – per imporre una svolta moderata. Credevo che alcuni articoli importanti, come quelli di Paolo Mieli e altri pubblicati dal Sette diretto da Pier Luigi Vercesi, avessero modificato la linea storiografica. Vidi con stupore che era rimasta immutata. Un po’ tutti sostenevano che lo sviluppo del centrosinistra era stato interrotto da un traumatico intervento eversivo, attribuito all’arma dei carabinieri del generale De Lorenzo, e ispirato o diretto dal presidente Segni. Decisi allora di dedicarmi allo studio di quegli anni. Scoprii una cosa, prima con sorpresa, poi con rabbia: l’interpretazione passata alla storia, che ormai ricorreva anche nelle opere più recenti come quella di Miguel Gotor, non corrispondeva a un’interpretazione tendenziosa o a una forzatura. Si trattava di qualcosa di diverso: un cumulo di autentiche fandonie e falsità. Una mistificazione della realtà». 
Il libro parte dall’inchiesta di Lino Jannuzzi, pubblicata il 10 maggio 1967 sull’Espresso diretto da Eugenio Scalfari. Titolo: «Complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano un colpo di Stato». Sostiene il figlio del presidente: «In tre pagine viene raccontata nel dettaglio la riunione tra De Lorenzo e lo stato maggiore al comando generale di Viale Romania, il 14 luglio 1964. De Lorenzo avrebbe ricevuto da mio padre la richiesta di garantire l’ordine pubblico. Consegna quindi ai generali il piano: stato d’allarme; sorveglianza delle persone ritenute pericolose in attesa dell’arresto e della deportazione in Sardegna; prosecuzione delle esercitazioni e dello spostamento verso Roma in atto. Il racconto è dettagliatissimo e impressionante. Posso dire sin da adesso che nulla di questo racconto, assolutamente nulla è vero: la riunione non si fece né quel giorno né mai, il discorso di De Lorenzo non fu mai tenuto, non fu decretato né l’allarme né la minima misura precauzionale. Non a caso, Saragat e Moro smentiscono nettamente. A quel punto, Scalfari chiede un intervento a Nenni. E qui si apre una delle vicende più significative. Perché Nenni, al quale viene attribuita la celebre frase sul “tintinnar di sciabole” (anche se non risulta se e dove l’abbia pronunciata), per decenni è stato fatto passare come colui che per primo aveva avvertito il pericolo. Ebbene, Nenni ha sempre negato che vi fosse stata alcuna forma di intervento o pressione armata, e l’ha ripetuto in tutte le sedi: articoli, interventi al tribunale e commissione di inchiesta, diario. Con straordinaria abilità si è fatto credere il contrario, al punto che oggi gli storici, compreso Paul Ginsborg, lo riportano tra i colpevolisti». 
Nel novembre 1967 inizia il processo Scalfari-De Lorenzo, che Mario Segni definisce «l’episodio più clamoroso e probabilmente quello che contiene più materiale interpretativo. Testimoniarono due ministri, un ex premier, sedici generali e sette colonelli. Si concluse con la condanna di Scalfari e Jannuzzi a pene vicine a quelle massime per la diffamazione (17 mesi di reclusione e 250 mila lire di multa per il primo, 16 mesi e 220 mila per il secondo). Per giustificare la sconfitta, la difesa iniziò la lunga polemica sugli omissis, sostenendo che era stato precluso ai giudici di indagare. Oggi che il governo ha desecretato tutto, sfido chiunque a trovare in quel vastissimo materiale qualcosa che avrebbe potuto influire sul processo. Nonostante l’esito inequivocabile, la campagna continuò martellante. Il fatto è che i tempi della giustizia non coincidono con i bisogni dell’informazione. Fatto sta che quando la motivazione uscì, sei mesi dopo, passò inosservata». Compreso il passaggio centrale: «L’attenta minuziosa verifica di tutte le risultanze processuali impone una sola conclusione, e cioè che non una delle affermazioni contenute negli articoli degli imputati ha mai avuto concreto fondamento di verità, e in sostanza che sotto il profilo della verità reale... Tutte le tesi formulate da Jannuzzi e da Scalfari nel giornale e nel dibattimento si sono dimostrate irrimediabilmente false». 
Due anni dopo, però, vi fu un altro processo per diffamazione contro il successore di Scalfari, Gianni Corbi; e il tribunale assolse. Sostiene Segni: «L’Espresso affermò che la vicenda giudiziaria si era quindi chiusa in parità, ma non è cosi. Il tribunale diede una diversa interpretazione giudica alla preparazione del piano da parte di De Lorenzo (irregolare in quanto fatta senza ordine del ministro), ma ricostruì nello steso identico modo il fatto centrale: affermò cioè che il piano aveva mere intenzioni difensive di tutela dell’ordine pubblico, e non esistevano prove che fosse stato usato in altro modo. Vi sono quindi due sentenze che hanno negato l’esistenza di un piano e di un comportamento eversivo. C’è poi un episodio che da solo fa crollare il castello accusatorio. Due anni dopo la crisi si deve nominare il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito. Mio padre si è dimesso, Moro e Nenni sono rimasti premier e vice, Saragat è il nuovo presidente della Repubblica. Al vertice dello Stato vi sono i tre uomini contro i quali, secondo la vulgata della sinistra, si sarebbe sviluppata la azione golpista di De Lorenzo. Eppure Moro, con l’appoggio di Nenni e Saragat e dei comunisti (Andreotti è contrario), nomina De Lorenzo. Ma come è pensabile che tre statisti designino alla più alta carica dell’esercito l’uomo che due anni prima con azioni eversive li avrebbe minacciati e offesi?». 
«La verità – conclude Segni – è che la sinistra italiana è stata incapace di affrontare la realtà e ammettere i propri errori, che dopo due anni di governo stavano affossando il centrosinistra. Molto più facile evocare un complotto e un Grande Vecchio, e attribuire loro la sconfitta. Ma così facendo si è ritardata di anni la maturazione dei riformisti, e si è costruito un tassello del mostro che stava per nascere, il terrorismo rosso. L’idea della violenza di Stato ha costituito per molti un alibi e una spinta al terrorismo. Allo Stato violento si risponde con la violenza». Sta dicendo che c’è un nesso tra il piano Solo e la strategia della tensione? «Storicamente no; appartengono a due mondi diversi. Ma il nesso è strettissimo nel modo in cui la strategia colpevolista ha raccontato la crisi del ’64. Non c’è opera della narrazione colpevolista che non indichi la crisi del ’64 come la prima vera pietra della strategia stragistica. E vi è un motivo ben preciso. La Dc e il suo mondo sono stati accusati di avere coperto o addirittura ispirato gli attentati. Ma se il partito è colpevole, mai nessuna persona viene accusata. E infatti accusare un partito è facile, accusare una persona è impossibile: servono prove, e servono accusati credibili. Per questa corrente di pensiero, il caso del ’64 è perfetto: accusati sono nientemeno che il presidente della Repubblica e l’arma dei carabinieri. Il racconto allora si completa, e deve essere sostenuto tutto. Ma se le cose stanno così, siamo in presenza di un’unica, gigantesca costruzione mediatica che ha raccontato in modo totalmente distorto due decenni di storia. Non è azzardato dire che si tratta della più grande fake news della storia repubblicana».