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 2021  aprile 11 Domenica calendario

Ritratto di Richard Dreyfuss

La prima volta che ho incontrato Richard Dreyfuss gli ho chiesto come stesse Curt Henderson, il personaggio che interpretava in American Graffiti, il giovane che si rende conto che per diventare uomo deve abbandonare il luogo in cui è nato. Richard capì al volo a cosa mi stessi riferendo, e cominciò a fantasticare sulla moglie e i figli di Curt con tono da attore consumato. Aveva già interpretato altri film memorabili come Lo Squalo e Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, ma quel film gli era rimasto nel cuore. Dopo essersi dilungato sul futuro immaginario di Curt, mi disse improvvisamente che capiva perché amassi quel film: «Hai riconosciuto che si è ispirato ai Vitelloni di Federico Fellini». All’epoca non ne ero affatto consapevole, ma bluffai dicendo «nessuno può distaccarsi dalle proprie radici». Ci eravamo conosciuti da pochi minuti, ma ci avventurammo in una discussione sull’identità come vecchi amici: «Chi decide di cambiare terra e quindi vita - concordammo - fa come quelle piante che per trovare la luce crescono in maniera inaspettata, curvandosi finché non trovano il sole. Ma guai se si tagliano le radici: in quel momento la pianta muore».
Non mi era capitato mai di trovare così rapidamente un’affinità con uno sconosciuto, e mi resi conto che si trattava di uno dei suoi talenti maggiori: ama discutere, Richard, confrontarsi, e cerca sempre di raggiungere il cuore degli argomenti e del suo interlocutore. È nato a Brooklyn nel 1947 in una famiglia di ebrei russi: il padre Norman era un avvocato che aveva diversificato la propria attività nella ristorazione, mentre la madre Geraldine ha dedicato tutta la vita all’attivismo pacifista, dopo che il marito venne ferito gravemente nella II guerra mondiale. Ma dopo aver trasferito la famiglia in California, abbandonò Geraldine per un’altra donna, che diventò la seconda delle sue quattro mogli. Richard non gli parlò mai più e cercò consolazione nella recitazione: la vita reale gli sembrò sin da allora fonte di dolore e delusioni. «La recitazione - spiegò - è l’unica forma d’arte basata interamente sulla finzione: gli abiti che indossi non sono tuoi, così come le parole che reciti. Fai finta di non vedere la troupe e se sei a teatro fingi di non vedere il pubblico, mentre il pubblico finge che quelli davanti a loro non siano attori ma vita reale. E tutta questa casa di finzione crea arte e verità: è un’emozione unica far ridere e piangere la gente». I suoi primi passi li fece negli spettacoli del Temple Emmanuel di Beverly Hills, poi, dopo aver scelto di essere un obiettore di coscienza in Vietnam, tentò di partecipare a Tutti insieme appassionatamente nel ruolo di uno dei figli, ma venne scartato perché non sapeva danzare. Apparve quindi brevemente nel Laureato, e poi in Dillinger, ma è proprio American Graffiti che lo lanciò, rivelandone un talento assolutamente fuori dagli schemi: basso, grassottello e trasandato, ma anche sornione, spiritoso e con lo sguardo acuto dell’intelligenza. Se ne accorse Steven Spielberg, che ne fece il suo alter ego nello Squalo, e soprattutto in Incontri Ravvicinati del Terzo tipo, dove immortala il cosiddetto Average Joe, l’americano medio, che si trova a vivere una avventura eccezionale. «Steven è l’unica persona per cui userei il termine genio, e non è un termine che uso spesso: il suo genio è l’immaginazione e l’abilità di immortalare il dettaglio più insignificante. Credo che non esista un altro narratore sulla terra così grande e capace di strutturare una trama con maestria».
Si deve anche al talento di Richard se Incontri ravvicinati riesce a comunicarci un’idea ancora oggi rivoluzionaria: l’alieno, e quindi ogni persona diversa, non rappresenta una minaccia, ma un’opportunità, che può portare anche alla salvezza e alla redenzione. Sin da allora il suo modello è stato James Stewart, che volle conoscere per dirgli personalmente: «Tu impersoni una parte essenziale di questa nazione. Sei gentile, spiritoso, auto-ironico, ma anche duro e pieno di emozioni». Il pubblico si affezionò rapidamente alle sue fattezze anomale, alla sua parlata veloce e al tono di voce nasale: nel 1977 divenne il più giovane vincitore di un Oscar in Goodbye, amore mio, ma proprio allora, all’apice del successo, entrò in un tunnel di dipendenza dalla cocaina, che lo fece licenziare dal set di All that Jazz, e venne perfino arrestato.
Decise di disintossicarsi, e dopo quattro anni fu Paul Mazursky a dargli una seconda chance in Su e giù per Beverly Hills. In quello stesso periodo gli viene diagnosticata una sindrome bipolare, cui dedicherà in seguito un dolente documentario, e scoprì che il primogenito Benjamin era affetto da una rara malattia agli occhi. Sono gli stessi anni in cui ha riscoperto le proprie radici ebraiche: ha prodotto e interpretato un film sul caso Dreyfus, sostenendo di essere un discendente della vittima di uno dei casi più gravi di anti-semitismo. È orgoglioso di aver recitato il Kaddish di fronte a papa Giovanni Paolo II e in quegli anni ottenne una nuova nomination all’Oscar con Goodbye Mr Holland e un notevole successo in Tutte le manie di Bob, dove però ebbe degli scontri memorabili con Bill Murray. «Il film era divertente, ma l’esperienza fu tremenda perché non andavamo d’accordo. Devo ammettere tuttavia che continua a farmi ridere e sono anche geloso perché gioca a golf meglio di me». Questo, purtroppo, è un altro elemento che gli ha alienato molte simpatie a Hollywood: Richard parla senza peli sulla lingua, facendo della sincerità il proprio comandamento.
È sempre più impegnato in attività estranee alla recitazione, come la Dreyfuss Civics Initiative, che vuole educare le nuove generazioni ai principi fondanti dell’America. Si è anche appassionato alla scrittura: insieme a Harry Turtledove, firma The Two Georges, un romanzo incentrato sul tema dell’identità, prima di impegnarsi nella ricerca di fondi per curare le malattie agli occhi. «La felicità - spiega - è sottovalutata, ma è l’unica cosa che conta, nella vita». Poi fa una pausa, prima di dire «come l’onestà». Non riesce a credere di aver superato i 70 anni, e pensa con malinconia ai cari amici scomparsi, come Carrie Fisher. Rifiuta di fare un bilancio della vita e preferisce parlare della carriera: «Ho deciso che sarei diventato attore a 9 anni, sapevo di poter diventare una star molto diversa da John Wayne o Al Pacino: un personaggio urbano, non troppo macho, progressista, che ascolta Paul Simon e ha anche qualche ambizione intellettuale. Insomma, uno come me».