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 2021  aprile 11 Domenica calendario

Intervista a Valeria Golino

«Sono qui a Los Angeles da gennaio. Quando sono arrivata era tutto  chiuso, come in Italia un anno fa. Città deserta, desolazione. Noi attori abbiamo lavorato, e continuiamo a lavorare, con test molecolari e rapidi tutti i santi giorni. E adesso, in meno di tre mesi, si sono riaperti i cinema, i ristoranti. Molto rapidamente si sta tornando alla normalità». A dirmi queste parole è Valeria Golino: il suo viso eternamente giovane mi è apparso sullo schermo del computer. È collegata da Los Angeles, dove si trova per girare una serie televisiva. Quello che mi sta dicendo sulla condizione americana riguardo al virus mi porta a cupe riflessioni che forse stiamo facendo un po’ tutti: se fino a pochi mesi fa gli americani arrancavano, rispetto a noi, adesso la situazione si è completamente ribaltata.
Come mai, Valeria?
«Qui stanno vaccinando l’intera popolazione, e molto velocemente. Dopo tutti gli errori del mondo, gli americani hanno capito e reagito. C’è anche da dire che la musica è cambiata con Biden. Vedere la loro efficienza e organizzazione mi fa letteralmente disperare per quello che sta accadendo in Europa».
Hai trascorso il lockdown sia in America sia in Italia, che idea ti sei fatta di questo virus?
«Sembra quasi una parabola biblica. Non possiamo non tener conto di cosa ci sta raccontando sulle conseguenze del nostro modo di vivere, di viaggiare, di connetterci».
Tu com’eri prima del virus?
«Avevo la vita scombinata e convulsa di sempre. Facevo le mie solite mille cose, e ne evitavo molte altre».
Qualche anno fa hai dichiarato che il giorno perfetto è quando hai mille impegni e un evento imprevisto di colpo te li cancella tutti, lasciandoti completamente libera. Il lockdown è stato per te un lungo giorno perfetto?
«Da un certo punto di vista, mio, intimo, mi ha fatto sentire anche libera, sì. Ma quello che è successo è una tragedia, un genocidio, se vogliamo, di generazioni. La sensazione di impotenza per avervi assistito resterà per sempre come una ferita, e lo è tutte le volte che mi dicono dall’Italia: oggi altri cinquecento morti. Numeri che sono diventati astrazioni, mentre restano persone che muoiono».
Hai paura della morte?
«Sì. Ho fatto due film che parlano di morte, nonostante i titoli fuorvianti "Miele" ed "Euforia", e non so se la vecchiaia mi aiuterà ad avere meno paura, perché conosco molti vecchi, e molte vecchie, e raramente ho visto quella riconciliazione con l’idea della morte che leggevo da piccola nei libri di Hesse, come Siddharta o Il Lupo della steppa. Ancora più della morte, mi spaventa il morire come adesso, da soli, senza poter essere accompagnati nell’ultima tappa dalle persone amate».
Con chi eri in quei mesi in cui si moriva di più?
«Con il mio fidanzato (l’avvocato Fabio Palombi). È venuto a stare da me ed è stata la nostra prima lunga convivenza. Due mesi e mezzo sempre insieme potevano indebolirci e invece così non è stato. A me piace vivere sola, però la solitudine forzata, prolungata, quella è un’altra cosa, che può portare alla malinconia. Il fatto di essere in due esorcizza quel rischio».
E come trascorrevate il tempo?
«Io ho dovuto fare tutte le cose che non facevo da anni e che forse non avevo mai fatto, come la lavatrice, questa sconosciuta (ride)! Facevo dei tutorial al telefono con le amiche: "Premi quel pulsante… sì, pare che si muova. Boh." Lavorando da quando sono giovanissima, mi sono sempre potuta permettere di delegare. È il vero lusso per me, non dovermi occupare di questioni pratiche… e non è certo una virtù».
Il tuo compagno ti aiutava.
«Sì. Insieme cucinavamo, lavavamo i piatti, facevamo le lavatrici, e le giornate volavano. Non mi sono mai annoiata. Guardavo anche la serie che sto facendo adesso. Con tutto un gruppo di amiche, tra cui Isabella Ferrari, Valentina Cervi, Francesca Marciano, ci sentivamo per commentarla. Non immaginavo che sei mesi dopo mi avrebbero chiamato per offrirmi una parte».
Matilda De Angelis, che come te ha avuto l’opportunità di lavorare in America, recentemente ha dichiarato che gli americani, quando cercano un attore, ci confondono con gli spagnoli.
«In realtà se sei spagnolo o sudamericano hai più possibilità perché c’è un mercato enorme. E anche se fossi stata francese, avrei avuto un’altra carriera, perché il mercato francese è più forte del nostro. Gli inglesi, che per altro sono i più bravi attori del mondo, incontrano il mercato americano, ma se sei italiano, greco o cecoslovacco, allora le opportunità sono davvero poche. Può succedere nel caso singolo - come con me anni fa, Matilda ora, o Monica Bellucci - che individualmente si fissino su una persona, ma non c’è nessun tipo di interesse da parte dell’industria per il nostro Paese, è più un fatto personale».
Un esempio?
«Sean Penn, quando interpretai il suo primo film da regista. Il mio ruolo era per una messicana, ma lui voleva me e non gliene è importato che non lo fossi. Oggi non succederebbe. Oggi tante cose non potrebbero succedere. Il politically correct non le permetterebbe».
Sei preoccupata?
«Stanno accadendo anche cose buone rispetto ai diritti civili, ma viviamo in un momento di oscurantismo culturale. C’è una mentalità molto severa e conservatrice. Le storie sono veicolo di cultura, ma se tu hai dei paletti per cui questo non si può dire, questo non si può fare, però devi fare quest’altro, allora si censura l’immaginazione, gli errori, tutto quello di cui l’arte ha bisogno, la libertà, l’idea di poter essere contro un potere già definito. Se l’arte non può essere politicamente scorretta, allora chi? E questo coinvolge anche la letteratura. Ormai gli editori cominciano a farti notare: questo personaggio non va bene perché è un misogino. Sì, ma viveva in un contesto storico… no, non importa. Io non penso che si debba rinnegare la Storia in nome del fatto che oggi siamo teoricamente migliori. E l’inclusione forzata, di ogni tipo, è un ghetto».
Un’inclusione solo apparente, perché per esempio i dati Istat hanno rivelano che il 99 per cento delle persone che stanno perdendo il lavoro sono donne.
«Ecco, ti rendi conto? Così finisce per esserci un gap tra la rappresentazione e la realtà. E non sto parlando del mio mondo, perché è anche vero che essere una regista donna oggi è molto più cool di quanto non lo fosse dieci anni fa. In questo momento, proprio per poter rappresentare quest’idea del politically correct, c’è tutta una corrente che dice: "meglio se sei donna". Uno ne potrebbe approfittare. Io mi rifiuto».
In che senso?
«Non ti dico il nome del festival, ma a un certo punto mi è stato offerto il premio di "miglior regista donna dell’anno". Ho detto: Cosa? Volete dare un premio al mio film perché vi è piaciuto? Allora datemelo. Ma un premio così io non lo accetto, grazie, datelo pure a qualcun altro. E infatti cosi è stato».
Tu hai lavorato con molte registe donne, e il tuo primo film è stato con Lina Wertmuller. C’è una differenza?
«Ci sono sensibilità diverse, certo. Siamo donne e uomini. E vive la difference! Anche il mio modo di lavorare con una donna è diverso. Ci sono altri codici, altre implicazioni».
L’attore e l’attrice migliori con cui hai lavorato?
«Non amo le classifiche. Ho lavorato bene con molti: Sean Penn, Gary Oldman, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini, Riccardo Scamarcio. Al di là del fatto che era il mio fidanzato, mi sono trovata benissimo anche quando l’ho diretto in Euforia. Holly Hunter. Una delle mie attrici preferite in Italia, Jasmine Trinca, ma anche Iaia Forte, Alba Rohrwacher, Valeria Bruni Tedeschi, un’artista vera».
Sei anche stata fidanzata con uno degli uomini più sexy della terra, Benicio del Toro. Che tipo era? Geloso?
«(Sorride). L’ho avuto forse anche nel suo momento migliore. Sì era geloso, per sua natura, e forse io gli davo anche modo di esserlo».
Resti in buoni rapporti con i tuoi ex?
«Intimamente, e nonostante tutto, continuo a voler molto bene alle persone di cui sono stata innamorata, però non rimango in rapporti stretti. Così sembrano cose interrotte invece che finite, e io questa cosa la proteggo, altrimenti nulla ha senso. Alla fine ho avuto pochissime storie. Quattro».
Hai sempre sognato di fare l’attrice?
«No. Io sono stata molto malata da piccola, fino a tredici anni, sempre con gessi, busti, una sofferenza evidente che mi ha fatto vivere in una specie di bozzolo. Quando è finita, è cominciata la mia adolescenza, ed ero molto carina, tutti mi dicevano fai la modella, e io l’ho fatto, mentre andavo a scuola, e pensavo che avrei fatto l’università. Non ho mai avuto il sogno di fare l’attrice, e poi lo sono diventata. Non ho mai avuto il sogno americano, e poi sono rimasta qui dodici anni. Ma non sono state mie decisioni, sono stata un po’ travolta dagli eventi».
Come affronti il tempo che passa? Non sembri preoccupata di invecchiare. E a meno che non ci sia un filtro in questo schermo, sembri sempre più giovane.
«Nessun filtro. Mi piacerebbe saperlo mettere, ma non c’è. Come il lifting. Mi piacerebbe? Si. Lo faccio? No. Il narcisimo estenuato è anche figlio di questi tempi, dove si è costantemente in mostra sui social».
Dove tu brilli per la tua assenza.
«In realtà sui social non vale la battuta di Moretti: a una festa mi si nota di più se vado o se non vado… Se non sei sui social, non ci sei e basta. Non credo che nessuno noti che manca la Golino…. E so anche che succedono un sacco di cose, lì dentro. Ma ho deciso di rinunciarci perché, per farli bene, bisogna dedicarci molto tempo. E io quel tempo preferisco darlo alle cose che amo di più».