Specchio, 11 aprile 2021
Quel massacro a Lignano per un pugno di euro
Gianluigi Nuzzi
Tu, Paolo Burgato, vendi coltelli a serramanico, a scatto, set da griglia e da camino, coltellini da dolce dal raffinato manico in ceramica e affilate lame giapponesi per sushi. Dall’altra parte del marciapiede ti guarda la vetrina de "il Re del Gelato", gelateria con coni fragola e limone, coppette alla stracciatella e vaniglia, granite di menta, tutto rigorosamente artigianale. Due botteghe storiche nel cuore di Lignano Sabbiadoro, polmone turistico del Friuli balneare, nella via Udine che s’adagia nello struscio la sera, il cono da passeggio, il gioco di sguardi tra adolescenti, scherzi e prime conquiste.
E quelle quattro case, la "vasca" della sera, erano anche l’approdo lieto di una signora cubana che con due figli aveva lasciato l’isola caraibica, dopo che il marito se n’era andato. Si era innamorata proprio del proprietario de "il Re del Gelato", tanto da averlo come compagno fisso, per mettere al mondo altre due creature e rifarsi una vita. Anche i due figli della prima unione lì si erano fatti grandi, Lisandra Rico Aguila, classe 1991, e Reiver detto Tyson, anche loro si erano abituati a questa nuova terra, al Friuli che ti accoglie e culla. Lisandra era andata a fare la commessa da Paolo Burgato, l’esperto di coltelli, che, a sua volta vedeva il figlio Michele spesso seduto ai tavolini di fronte alla bottega a consumare un gelato dal patrigno della giovane dipendente cubana. Insomma, la normalità in ogni declinazione, conoscenze e amicizie e rapporti di lavoro. In queste dinamiche si desidera tra ciò che si vede, si prende ciò che si desidera. E così si scrive la peggior pagina nella storia di Lignano Sabbiadoro, una comunità tranquilla che dai tempi di Unabomber, degli esplosivi mimetizzati in spiaggia, che brillavano e ferivano tra ombrelloni e sabbia, non segnava di sangue una sua giornata Se non era solo gioia, almeno era spensieratezza.
Del resto, gli incassi della bottega del Burgato erano un obiettivo criminale ideale per alimentare l’aspettativa di ladri improvvisati. Cosa può allettare di più in dei criminali principianti se non una coppia di anziani coniugi che fotocopiano ogni giornata da quella del giorno prima e da quella che l’indomani verrà? E così in Lisandra e Tyson cresce dentro il progetto dell’agguato, della rapina, del depredare Paolo Burgato, 69 anni, e la moglie Rosetta, 66, delle ricchezze che sicuramente custodiscono in cassaforte a casa. Così, la sera di quel 18 agosto 2012, in piena stagione turistica, i fratelli cubani hanno atteso gli anziani coniugi fin quasi all’una, al rientro dopo la cena al ristorante e una giornata di vendite, certi che avessero con sé l’incasso del negozio di coltelli, oltre a chissà quale tesoro, in un nascondiglio nella villa di famiglia, in via Annia. Questa convinzione folle ha portato alla tragedia.
Quando Paolo e la moglie Rosetta in quella notte senza luna li hanno visti spuntare dai cespugli in giardino, mai avrebbero immaginato le sevizie e l’agonia alle quali sarebbero andati incontro. Una notte di violenze e torture con questi due ragazzi che in un attimo, da vicini di negozio, si sono trasformati in perfidi aguzzini. Tutto pur di portare avanti una ritualità di dolore, che per i giudici non certo era «finalizzata alla commissione della rapina», né certamente «aveva finalità di difesa». Insomma, «abisso invoca abisso» come direbbe Clemente Rebora, per affacciarsi su due ore di autentico martirio.
I cubani hanno torturato i Burgato per sapere dove tenevano il loro tesoro, conoscere il nascondiglio e quindi depredarli. Ogni diniego, ogni risposta negativa veniva interpretata come menzogna, affronto, una sfida. E la violenza s’imbastardiva ancora di più in tortura e supplizio, scatenando la furia bestiale. Soprattutto su Rosetta, il corpo massacrato per ore e ore, pur di costringere il marito Paolo, che assisteva impotente, a indicare dove fosse celato quel maledetto gruzzolo e terminare il saccheggio. Ma il silenzio dei Burgato era solo figlio della verità non creduta e padre della loro fine. Così i coniugi sono stati lasciati lì in un’atroce e lenta agonia per andare incontro a una morte tanto dolorosa quanto devastante. Fino a quando – la mattina dopo - non è stato proprio il loro figlio a ritrovarli nel bagno del garage, dopo esser stato avvisato dagli amici commercianti di via Dante che avevano notato la coltelleria insolitamente chiusa.
Un massacro senza precedenti, tanto da impressionare persino i magistrati. Pallido in volto, il procuratore capo di Udine, Antonio Biancardi, nemmeno trovava le parole: «Ci siamo trovati davanti a scene raccapriccianti, sconvolgenti, efferate, mai viste». «Il Burgato era stato violentemente picchiato e più volte colpito, anche al capo, con un corpo contundente – sottolineano poi i giudici della Cassazione - Era stato, dunque, freddato tramite l’utilizzo ripetuto e profondo di un tagliente nella parte anteriore e laterale del collo. Alla Sostero erano stati inferti ripetuti colpi al capo. Si trattava di undici lesioni, tutte singolarmente mortali, che avevano rivelato un’inconfutabile ripetuta e decisa lesività. Anche alla Sostero erano stati provocati tagli alla gola, tipici dello "scannamento" allorquando ella era già deceduta o "in limine vitae"».
E cosi si inizia a battere ogni pista. Vale quella balcanica, vale quella di un giro "sporco" di denaro nel quale sarebbero finite le vittime, ma non si esclude nemmeno la ‘ndrangheta o la mafia russa. E l’idea della rapina finita male all’inizio nemmeno viene considerata, con la borsetta di Rosetta lasciata lì e nemmeno toccata. Tutto sbagliato. Gli assassini erano lì seduti alla gelateria, impavidi a celare quel segreto, abbozzando una normalità per dimenticare la notte delle sevizie. Senza sapere, però, che sulla scena del crimine erano rimaste diverse tracce rilevanti. A iniziare da alcune ematiche, dalle impronte di scarpe imbrattate di sangue, per proseguire con due mozziconi di sigaretta e concludere con un prezioso frammento di carta ritrovato nei pressi di una siepe, i cui rami risultavano spezzati in corrispondenza del muretto di cinta della villetta. Proprio su quei reperti sono presenti delle impronte. E quindi del dna. Nel frattempo i militari del Ros dei carabinieri e dei reparti territoriali interrogano decine di testimoni. Tra questi anche la madre di Lisandra, che lascia nella sua deposizione i primi elementi a carico della figlia. Stranamente la ragazza si è subito trasferita a 900 chilometri di distanza, a Pontecagnano, in provincia di Salerno, mentre il fratello è rientrato a Cuba. La giovane viene così intercettata nelle conversazioni con il fratello e certe frasi sibilline,- «Sarebbe stato ciò che doveva essere» - aggiungono altri sospetti. Fino alla svolta che arriva dalla scienza, quando i Ris confrontano il dna rinvenuto sui reperti, dai due mozziconi ai frammenti cartacei, con quelli di Lisandra e del fratello Reiver: corrispondono. Insomma, i due erano quantomeno presenti sulla scena del crimine. Scattano le manette, Reiver finisce in carcere a Cuba, mentre la sorella viene riportata a Udine. Il 17 settembre per sei ore la donna prova a resistere, poi crolla e confessa. «Ho preso il coltello più grande che avevo appoggiato per terra e ho tagliato la gola al signor Burgato e poi anche alla signora…. Ho fatto tutto io». Ma gli inquirenti non le credono, forti delle intercettazioni nelle quali la ragazza promette al fratello di prendersi ogni responsabilità. Ma il 2 ottobre la donna cambia strategia, ribalta la propria versione, attribuendo a Tyson ogni colpa.
Ed è stato proprio lui a organizzare la rapina, o almeno l’acquisto di tre coltelli e una pistola giocattolo per una dinamica da paura per pura necessità di soldi. Lisandra afferra Rosetta Sostero e la costringe a entrare in garage; il fratello si occupa del marito della donna. «L’esplosione della violenza cieca – ricostruiscono i giudici della suprema corte - era avvenuta all’interno del bagno». Nel bidet viene rinvenuta dell’acqua e sul fondo gli occhiali della vittima: «Il volto dell’uomo era stato spinto nell’acqua, per indurlo a rivelare dove fosse il denaro e aveva perso gli occhiali. Nella prima fase il Burgato aveva consegnato il portafogli; non aveva indicato il luogo in cui si trovava altro denaro, che il Reiver era convinto fosse custodito in cassaforte. La Lisandra era, dunque, salita al piano superiore, (…) affermava di non aver rinvenuto il denaro e di essersi portata nuovamente in garage. In quel frangente il Burgato aveva riconosciuto dalla voce il Reiver. Da lì aveva tratto scaturigine la determinazione di uccidere entrambi i coniugi». E fin dai primi momenti, sorprende ancor più l’atteggiamento d’ostentata indifferenza dell’assassina.
Un comportamento che, scrive il gup di Udine Roberto Venditti, «non presenta alcun profilo di meritevolezza, né durante l’azione criminosa, né successivamente», senza mai mostrare alcun pentimento, ad eccezione di quello «largamente tardivo manifestato in udienza» con la lettera di scuse nei confronti dei parenti delle vittime. Per lei la condanna definitiva sarà dell’ergastolo, mentre al fratello vengono inflitti vent’anni di reclusione.
Nelle motivazioni della sentenza, i giudici con l’ermellino osservano come sia impossibile determinare chi tra i due fratelli abbia davvero inferto i colpi mortali, ma al tempo stesso si tratta di un dettaglio trascurabile perché entrambi avevano intenzione di uccidere. Per un pugno di banconote.