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 2021  aprile 11 Domenica calendario

Il processo a Eichmann, sessant’anni fa

Esattamente sessant’anni fa, l’11 aprile 1961, si apriva a Gerusalemme il processo contro Adolf Eichmann, un atto di giustizia che, celebrato sulla scena pubblica mondiale, ha segnato un prima e un poi producendo effetti decisivi. Più passa il tempo e più diviene infatti chiaro che in quel frangente è cambiato non solo il modo di guardare alla Shoah, ma anche quello di intendere sia la questione etica della responsabilità sia il rapporto politico fra cittadini e potere. Se oggi siamo quello che siamo, se obbedire non è più un valore ovvio, se disobbedire è un compito democratico, è grazie a quel processo che ha mutato profondamente le coscienze.
Quando David Ben Gurion annunciò che il boia nazista era stato catturato dagli agenti del Mossad, la sorpresa fu grande. Perché di lui si erano perse le tracce. L’architetto della Shoah sembrava scomparso nel nulla. Ma come altri nazisti che, grazie a appoggi e complicità, avevano trovato rifugio in Sudamerica, Eichmann si era imbarcato a Genova con il falso nome di Ricardo Klement ed era riuscito a raggiungere l’Argentina nel luglio del 1950. Aveva cominciato una nuova vita senza venir meno alla fede nazionalsocialista. Non solo non aveva rivisto le sue convinzioni, ma si preparava a realizzarle sotto nuovi cieli. Né isolato, né pentito. Dai documenti scoperti di recente, le «carte argentine», emerge una rete impressionante di rapporti. L’esperto della «questione ebraica», oltre a essere amico del Gran Muftì, era in contatto anche con il cancelliere tedesco Konrad Adenauer – quasi a suggellare una continuità tra il vecchio regime e la nuova repubblica.
Tra il silenzio tombale delle vittime e l’assordante silenzio dei persecutori, nella Germania post-nazista l’amnesia rischiava di precipitare nell’amnistia. A impedirlo fu il processo Eichmann. Ma a questo risultato se ne deve aggiungere un altro forse più importante. A quell’epoca si parlava in generale di crimini del nazismo, mentre lo sterminio degli ebrei era un dettaglio diluito in quei crimini. Non si capiva – o non si voleva capire – la struttura dei campi di sterminio dove, a differenza dei campi di concentramento, i deportati venivano immediatamente inseriti nella catena di gassazione delle officine hitleriane. Con i suoi nodi irrisolti sulla «questione ebraica» la sinistra europea aveva contribuito a rimuovere e minimizzare.
Il processo Eichmann ruppe il silenzio. La Shoah era lì, incontrovertibile nelle sue dimensioni, nella sua gravità, nella sua peculiarità. Migliaia di pagine di fascicoli, centinaia di testimonianze, un’immensa documentazione. Fu un trauma, una cesura. Da allora cominciò la faticosa rielaborazione della memoria.
Il terzo risultato del processo fu ottenuto grazie a Hannah Arendt che riuscì ad aprire un grande dibattito che in fondo prosegue ancora. Si dice Eichmann e si pensa al Male nella sua versione novecentesca. Ma che genere di male? Agli occhi di Arendt quel boia non appariva come una bestia degli abissi. Non aveva nulla di demoniaco né di profondo. Sembrava piuttosto un grigio impiegato, il prototipo del burocrate incapace di mettersi nei panni altrui. Si poteva allora parlare di «banalità» intendendo con questa parola un sinonimo di stupidità, o meglio, di assenza di pensiero. Il male va ricondotto a quell’attività incessante e ripetitiva che non permette di fermarsi a riflettere, di meditare sulle conseguenze delle proprie azioni. Il che impedisce di giungere a un giudizio autonomo.
Se però Eichmann non era che un piatto funzionario rimasto fedele, se non era che la rotella all’interno di un ingranaggio che, anche senza di lui, avrebbe comunque funzionato, quali colpe potevano essergli imputate? Arendt è stata criticata, in parte giustamente, per aver sottovalutato il ruolo dell’ideologia. Ed è vero che sembra ormai datato il suo ritratto di Eichmann, troppo rispondente alla maschera che lui stesso aveva volutamente presentato per cercare scampo.
Ma il punto è un altro. Arendt ci ha insegnato il valore della resistenza e il significato della disobbedienza civile. Dopo il processo Eichmann nessuno può più dire impunemente di essersi limitato a obbedire agli ordini. Il burocrate che ha preso parte al massacro amministrativo deve parlare di fronte al giudice in prima persona e deve rispondere per non aver disobbedito. Ecco la sua colpa: aver preferito non sapere, non vedere, non pensare. L’obbedienza zelante dell’esecutore impeccabile si è rivelata in tutta la sua mostruosità.
Dopo l’esperienza totalitaria, dopo quei mostri dell’obbedienza, che proclamavano di aver semplicemente eseguito gli ordini, lo stesso verbo «obbedire» ha assunto per noi significati e assonanze diversi. In fondo obbedire vuol dire non aver nulla di cui rendere conto, nulla di cui rispondere. Chi si sottomette supinamente ai comandi sembra del tutto deresponsabilizzato. È mutato, dunque, il rapporto tra obbedienza e responsabilità.
Se quel che è accaduto può ripetersi, quanti grigi esecutori potrebbero mettere a rischio anche le democrazie? L’organizzazione tecno-burocratica della vita, che segmenta la responsabilità, rendendo indifferenti e anestetizzando, agevola l’opera di futuri grigi esecutori senz’anima e senza pietà. Ecco perché la disobbedienza civile, assente ingiustificata durante il nazismo, è diventata per noi imprescindibile. Coloro che la praticano non sono temibili fuorilegge da condannare, non minacciano l’ordine pubblico. Al contrario, sono cittadini esemplari alla cui audacia si deve la vitalità della democrazia e un ritrovato senso di giustizia.