il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2021
Nel nuovo cda Rai ancora oggi si può nominare chiunque
“Le carte che riguardano il Servizio pubblico sono davvero tutte in regola se, mentre rivendica il diritto alla propria autonomia gestionale, non resiste poi alla pressione politica sulle nomine?”
(Sergio Zavoli, presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza – Atti del 1° Seminario su “Lo stato della tv in Italia e il ruolo della Rai” – Roma, 24 novembre 2009)
Se fosse interpretato alla lettera il Testo unico che regola la “Disciplina della Rai-Radiotelevisione italiana S.p.A.”, in particolare per quanto riguarda la nomina dei componenti del cda, non se ne salverebbe neppure uno degli ultimi tre lustri. L’articolo 49 stabilisce, infatti, che “possono essere nominati membri del consiglio di amministrazione i soggetti aventi i requisiti per la nomina a giudice costituzionale ai sensi dell’articolo 135, secondo comma, della Costituzione”. Il quale articolo prevede, a sua volta, che questi “sono scelti fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni ordinaria e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio”. A occhio e croce, non devono essere molti fra gli ex consiglieri della Rai a poter vantare tali requisiti: cioè un rango costituzionale, accademico o giuridico.
Fatto sta che lo stesso articolo 49 del Testo unico contiene ovviamente una deroga estensiva che, in puro politichese, recita così: “O comunque, persone di riconosciuta onorabilità, prestigio e competenza professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinte in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali”. Quel “comunque” è, evidentemente, un capolavoro di ipocrisia e di arroganza della partitocrazia che ha concepito la formulazione della norma. Come dire, in pratica, oves et boves, a discrezione e insindacabile giudizio dei signori dei partiti.
Spetta al Parlamento eleggere quattro componenti su sette del CdA, due alla Camera e due al Senato, con voto limitato a uno solo fra coloro che presentano la propria candidatura. Vale a dire che i partiti devono mettersi d’accordo fra di loro per spartirsi le poltrone. Altri due vengono nominati dal Consiglio dei ministri, cioè dal governo, su proposta del ministro dell’Economia che detiene il pacchetto di controllo della Rai: predestinati a diventare uno presidente e l’altro amministratore delegato. E infine, come vittima sacrificale sull’altare aziendale, il settimo consigliere è indicato dall’assemblea dei dipendenti.
In questo fosco scenario giuridico e politico, è chiaro che il consiglio di amministrazione della Rai non può che essere una proiezione, deformata e distorta, del sistema partitico. E con ogni probabilità, lo sarà ancor più il prossimo che dovrebbe essere insediato a giugno. Con la sua maggioranza XL, neppure il Governo dei Migliori riuscirà a nominare un cda a norma di legge, in grado di garantire un effettivo servizio pubblico: per la semplice ragione che la “notoria indipendenza di comportamenti”, richiesta dall’articolo 49 del Testo Unico, difficilmente potrà essere esibita dai candidati scelti “comunque” dal Parlamento.
È vero – come auspica Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti – che sarebbe meglio parlare dei fini, degli obiettivi, della missione del servizio pubblico, piuttosto che di toto-nomine. Ma, fino a quando non cambierà la governace della Rai, si rischia di fare soltanto un esercizio retorico, per non dire perdere tempo. Al momento, in attesa del nuovo cda extralarge, né la televisione né la radio pubbliche meritano un impegno del genere.