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 2021  aprile 10 Sabato calendario

Intervista a Salvatore Settis


Qualche tempo fa a Roma ho visitato, insieme al suo curatore Salvatore Settis, la bellissima mostra sui marmi Torlonia. Girando per le sale dei Musei capitolini con quella guida d’eccezione ho pensato a un certo punto alla parola “chiaroveggenza” e quanto questa condizione speciale abbia segnato la vita di Alessandro Torlonia, un uomo ricchissimo che alla metà dell’Ottocento seppe creare la più mirabile collezione privata di arte antica: «Non sono tante le persone in grado di afferrare la bellezza che imperò nel passato e proiettarla nel futuro. Mi affascinava l’idea di prendere una storia fatta di forme e di gesti, di quella fluidità che il marmo a volte trasmette, per raccontarla come fosse un romanzo inattuale». Salvatore Settis ha da poco pubblicato, per Feltrinelli, Incursioni, un libro dove la parola “chiaroveggenza” sembra funzionare nei due sensi di marcia: dall’arte del passato che “intravede” il contemporaneo e da quest’ultimo che risale più o meno inconsciamente, alle proprie origini remote. «Quello che lei chiama chiaroveggenza non è altro che la memoria di ogni singola cosa che si fa strada oltre il proprio tempo e al di là delle intenzioni di chi l’ha creata».Però le “cose” è raro che arrivino indenni a noi. A volte sono solo fragili resti, di cui occorre prendersi cura. Come si nota anche in questa mostra grazie alla funzione del restauro.«Il restauro di un’opera può essere semplice maquillage, lavoro filologico, oppure un gioco combinatorio. In questa mostra sono presenti tutti e tre gli aspetti».Il restauro è una pratica moderna.«È già attivo nel Cinquecento, quando si cominciò a discutere se fosse giusto completare una statua.Michelangelo si rifiutò di intervenire sul “Torso del Belvedere”, perché troppo bello. Lo stesso Canova si rifiutò di toccare i marmi del Partenone. Mentre il suo coetaneo Bertel Thorvaldsen era dell’idea che un’opera potesse essere ampiamente integrata.Uno dei luoghi di maggior prestigio che ancora oggi l’Italia può vantare è l’Istituto centrale del restauro.Quel progetto fu istituito nel 1939 e doveva in qualche modo coadiuvare la difesa della legge sul paesaggio voluta da Bottai. Il primo a condurre l’Istituto fu Cesare Brandi, con l’ausilio fondamentale di Giulio Carlo Argan».Per l’Istituto una figura fondamentale del dopoguerra fu Giovanni Urbani.«Un uomo straordinario. Prima si parlava di “chiaroveggenza”, ebbene, lui sì che ha avuto uno sguardo che si posava lontano. Ma la chiaroveggenza può essere una dono impegnativo».In che senso?«Urbani sapeva di non essere capito, e viveva questa condizione come una forma di doloroso distacco aristocratico».Lo ha conosciuto?«Lo conobbi a una riunione di storici dell’arte. Ero giovane e ricordo che a un certo punto conversò con me senza alcuna affettazione o condiscendenza. Seppe immediatamente mettermi a mio agio».Che concezione aveva del restauro?«Può suonare paradossale, ma la cosa più intelligente per lui era cercare di fare meno restauri possibili.Un’opera andava curata prima che si deteriorasse. Di qui la necessità di rivolgere l’attenzione soprattutto alla cura dell’ambiente. Anche questa sua “profezia” non venne raccolta».La sua idea di restauro invece qual è?«Sono accettabili quegli interventi che comportano un’acquisizione di conoscenza. Una mostra, come quella che abbiamo visitato, somiglia a una macchina per pensare. Mette in moto delle interessanti curiosità culturali».Non trova che oggi la gran parte delle mostre siano più macchine dello spettacolo che del pensiero?«Certo, l’effetto scenografico, che non disdegno intendiamoci, non deve prevaricare il lato divulgativo e conoscitivo. La spettacolarizzazione è un frutto dei nostri tempi effimeri».L’archeologia, ammetterà, si presta.«Ricordo quando mio nonno mi portava a passeggio spiegandomi i frammenti di antiche anfore che raccoglievo da terra. Lo spettacolo era tutto nelle parole con cui mi avvicinava alle origini di quel mondo».Suo nonno cosa faceva?«Era ispettore onorario di una vasta zona che ricomprendeva una colonia sotto l’aria della Locride».Parla della Calabria.«È la terra dove sono nato».Esattamente dove?«A Rosarno. Provengo da una famiglia di media borghesia locale. Avevamo possedimenti per produrre olio e grano.Ma una parte di quella campagna era in una zona archeologica. Lì ho avuto il mio apprendistato. Il nonno aveva conosciuto Paolo Orsi, sovrintendente a Siracusa e straordinario archeologo. Fu credo il primo a occuparsi degli scavi in Sicilia».I suoi genitori condividevano la sua passione?«A mio padre piaceva questo interesse, così raro in un adolescente. Ma, da segretario comunale, sperava in un figlio avvocato. Gli dissi che avrei voluto seguire un’altra strada».Quale?«Uno zio, che gestiva degli appalti in Toscana, mi portò in visita a Pisa. Ricordo che ci fermammo anche davanti alla Normale. Lui disse che lì avrei dovuto fare i miei studi, sottintendendo che sarebbe stato il solo modo per soddisfare la mia passione per il mondo antico. Si accedeva per concorso. Oltretutto molto selettivo.Quando dissi a mio padre che quella sarebbe stata la mia scelta, vidi una certa delusione. E allora gli proposi un patto. Gli dissi che se non avessi avuto l’ammissione, avrei seguito il suo consiglio, iscrivendomi a giurisprudenza a Messina».E lei lo vinse.«Con un anno di anticipo. Nel 1959 a 18 anni mi iscrissi a Lettere».Era il periodo in cui la Normale annoverava grandi figure.«Tra tutte spiccava un nome a molti sconosciuto: Eduard Fraenkel, grandissimo filologo, ebreo fuggito dalla Germania, emigrò prima in Inghilterra, insegnando a Oxford, e poi agli inizi degli anni cinquanta venne a Pisa come visiting professor. Ricordo Augusto Campana, grande paleografo e Vittorio Bartoletti, papirologo; Emilio Gabba, frequentai un suo corso su Tucidide; il medievista Arsenio Frugoni, di cui avrei sposato la figlia Chiara. E poi ricordo Luigi Russo, già in decadenza, con evidenti problemi di memoria. Un mese l’anno veniva da Chicago Arnaldo Momigliano per tenere le sue meravigliose lezioni di storia antica. E poi, c’era la memoria ancora viva di Giorgio Pasquali, anche se Momigliano non lo amava per la sua adesione al fascismo».Lei chi frequentava?«Due persone, tra le tante, mi restano impresse: il grande matematico Ennio De Giorgi, un uomo solitario con una voce chioccia, cui piaceva confrontarsi con i giovani letterati. E Sebastiano Timpanaro, cui diedi da leggere i miei primi saggi di filologia: sia lui che la madre me li restituivano con dei commenti molto pertinenti».Timpanaro non insegnava.«Aveva il terrore di parlare davanti a un pubblico che superasse le tre o quattro persone. Quando divenni preside di facoltà, provai più volte a proporgli di condurre un ciclo di lezioni. Ma non ci fu verso. Si trovava a suo agio con poche persone o chiuso nella stanzetta con il suo lavoro di correttore di bozze».Alla fine cosa è stata per lei la Normale di Pisa?«La messa a punto di un metodo di studio e delle basi per le mie conoscenze del mondo antico. Credo non ci sia stato apprendistato migliore».La cosa che colpisce, dopo aver letto il suo nuovo libro “Incursioni”, è la decisa apertura verso l’arte contemporanea. Sfilano i nomi di Marcel Duchamp, Mimmo Jodice, Tullio Pericoli, Giuseppe Penone, Bill Viola, William Kentridge, Dana Schutz. Perché?«Effettivamente la cosa può apparire bizzarra in uno studioso del mondo antico. Anche perché di solito si tende a privilegiare la discontinuità tra mondi così distanti. In realtà come ho cercato di mostrare – partendo da alcune ricerche che Aby Warburg condusse sulle immagini – tra antico e contemporaneo non c’è netta frattura ma una perpetua tensione, un continuo rinvio di forme e di stili».Warburg esemplificò tutto questo con l’“Atlante della memoria”. Che cos’era esattamente?«Fu un progetto a cui lavorò negli ultimi anni della sua vita e che chiamò “Mnemosyne”».A prima vista sembrava un collage di immagini, le più disparate.«Poteva fornire questa impressione, in realtà quello che Warburg voleva offrire era una mappa della memoria culturale europea. I nessi che univano, come un fiume carsico, immagini distanti tra loro secoli e perfino millenni: Giotto che riprende un dettaglio drammatico da un sarcofago del primo secolo e lo rilancia, fino ad arrivare a “Guernica” di Picasso!».A proposito di antico e moderno lei ha avuto un confronto molto aspro con Luciano Canfora, circa la datazione di un’opera dell’antichità o presunta tale.«Si riferisce immagino al Papiro di Artemidoro».Esattamente, a distanza di anni come ripensa a quella vicenda, in cui Canfora sostenne che quel papiro era un falso ottocentesco e alla fine un giudice gli diede ragione?.«Sull’autenticità del papiro non ci sono dubbi, né sulla data che è gli inizi del primo secolo dopo Cristo. Quindi la vera discussione scientifica non riguarda tanto l’autenticità, ma il fatto che quel papiro non è il resto dell’edizione di Artemidoro, ma un brogliaccio che contiene molte cose, alcune delle quali non hanno niente a che vedere con Artemidoro».Intende dire che l’opera si presenta come un insieme di cose non del tutto coerenti?«Più o meno è così, oltretutto è in preparazione un importante volume sui frammenti geografici di Artemidoro e quel papiro tanto discusso vi sarà incluso».Ma la sentenza processuale fu a lei sfavorevole.«Così è stata letta da coloro che hanno sposato la tesi di Canfora. Ma non si è trattato di una sentenza bensì di una richiesta di archiviazione. C’è una bella differenza».Un’archiviazione, va detto, per sopraggiunta prescrizione.«Tutta la vicenda in Italia è stata affrontata come un puro problema mediatico. Lo stesso procuratore Spataro nelle oltre trenta pagine di disamina, ha sposato solo il punto di vista di Canfora, ignorando in pratica quanti hanno sostenuto scientificamente l’autenticità del Papiro. Diverso è stato l’atteggiamento internazionale, dove la stragrande maggioranza degli studiosi si è espressa a favore dell’autenticità. Nel frattempo dal fondo Oxford sono usciti all’incirca 500 papiri, alcuni dei quali somigliano a quello di Artemidoro, togliendolo dall’isolamento».A proposito di sguardo internazionale lei ha ricoperto diversi incarichi di prestigio.«Sono stato dal 1993 al 1999 direttore a Los Angeles del Getty Research Institute, attualmente sono presidente del consiglio scientifico del Louvre. Ho lavorato con i maggiori musei del mondo».Lei compirà tra un paio di mesi 80 anni. Con che spirito guarda al suo passato?«Mi sembra cortissimo rispetto ai tempi della storia che di solito affronto. Il bilancio pubblico sono i miei libri, la mia ricerca, il mio impegno. Per un bilancio privato non mi ritengo una persona così interessante da offrirmi a modello».Si riconosce nel ruolo di intellettuale pubblico?«Non è qualcosa che mi si confà, lo dico nella convinzione di sentirmi una specie di voce nel deserto».In questo sembra più simile a un intellettuale radicale.«È una sponda che mi ha spesso attratto. Pensi che nella mia gioventù sono stato legato al primo partito radicale. Ma feci in tempo, da studente, ad assistere a una sola riunione. Poi quell’esperienza – che annoverava tra gli altri i nomi di Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Eugenio Scalfari e Marco Pannella purtroppo si dissolse. Da allora non mi sono più iscritto a nessun partito. Preferisco le idee anche rischiose degli uomini e delle donne, alle ideologie e alle convenienze del momento. Preferisco essere contro che a favore. Sì, in questo mi sento ancora un radicale».