Robinson, 10 aprile 2021
Viaggio al centro di una donna
Anticipiamo la prefazione della grande scrittrice a “Notti insonni” di Elizabeth Hardwick pubblicato per la prima volta in Italia Eccezionale memoir di una dei fondatori della “New York Review of Books”
«Ho sempre cercato, per tutta la vita, l’aiuto di un uomo», ci viene detto nelle prime pagine del nuovo libro indefinibile di Elizabeth Hardwick. «Molte volte è arrivato, molte più volte no. È iniziata presto» . Notti insonni è un romanzo, ma è un romanzo in cui il soggetto è la memoria e rispetto al quale l’«io» di cui si discutono i ricordi è interamente e deliberatamente identificabile con l’autrice: riconosciamo gli eventi e gli indirizzi abitati da Elizabeth Hardwick durante la sua vita non solo in base ai suoi lavori precedenti, ma attraverso le poesie di suo marito, il compianto Robert Lowell. Vediamo in un’altra luce i pomeriggi piovosi e le scarpe colorate di satin e l’ubriachezza liceale di un’adolescenza nel Kentucky, i cappottini leggeri e la nostalgia di casa durante gli anni universitari alla Columbia, le residenze nel Maine e in Europa, a Marlborough Street a Boston e sulla West 67th Street a New York. Ci viene proposto l’itinerario completo; ci vengono mostrati tutti i biglietti convalidati e le coincidenze prese. Il risultato non è tanto una «storia su» o la storia «di» una vita, quanto una meditazione su una vita, un’opera evocativa e difficile da collocare tanto quanto Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss, a cui stranamente si accosta. Della sua narrativa enigmatica, l’autrice osserva: «Certo, non ha la stessa enfasi di: ho avvistato il vecchio nostromo dalla barba bianca sul ponte e mi sono arruolata per il viaggio. Ma in fin dei conti sono una donna, io ».Riesce a toccare un tasto interessante, un misto di diffidenza orientale e squisito sprezzo, di ironia e affermazione diretta: è proprio questa la sensibilità che si dipana in Notti insonni.«Ma in fin dei conti sono una donna, io. » Tristi tropici per davvero. Nel manifestare i suoi propositi, Lévi-Strauss aveva scelto di citare Chateaubriand: «Ogni uomo porta in sé un mondo composto di tutto ciò che ha visto e amato, a cui ritorna continuamente».Per certi aspetti, la «differenza» misteriosa e sonnambula dell’essere donna è stato il grande tema di Elizabeth Hardwick per più di trentacinque anni, il tropico a cui è tornata continuamente. Hardwick ha scritto una cronaca incessante del flutto di fondo nella vita di famiglia, il tormento fantastico dell’essere figlia; un’osservatrice nel nucleo casalingo, una lettrice costante del testo domestico, dell’anarchia del sesso. Ha fatto chiarezza su esistenze ridotte quasi sempre, sbagliando, a esempi tragici di come vivono tutte le donne. In Seduction and Betrayal, per esempio, ha individuato la grettezza claustrofobica e caratteristica di Virginia Woolf, la sua femminilità esasperata, non tanto nella sua condizione di donna quanto nell’estetismo e nell’androginia del circolo Bloomsbury; ha individuato l’origine della distruttività di Sylvia Plath non nella sua epoca e nel suo genere, ma nella sua «mancanza di radici nazionali e locali», negli «antenati stranieri per parte di madre e padre», e nel suo peculiare – come una volta è stato fatto notare –, inconfondibile sradicamento.Tutto questo è molto originale e interessante, proprio come la sfiducia radicale di Elizabeth Hardwick nell’individualismo romantico, la sua accesa inquietudine verso lo scempio che un individualismo corrotto può arrecare nelle vite delle donne. Le donne alla deriva, nell’opera di Elizabeth Hardwick, indulgono in una preferenza fatale per gli uomini con un brutto carattere. Le donne alla deriva vanno a lezione di ballo, e finiscono sulle segnalazioni delle persone scomparse.Forse nessuno ha scritto in maniera più acuta e struggente dei modi in cui le donne compensano la loro relativa inferiorità fisiologica, delle implicazioni poetiche e pratiche nell’andarsene in giro per il mondo scarse di emoglobina, scarse di capacità respiratorie, carenti di forza muscolare e carenti di stabilità nei sistemi vascolari e nervosi autonomi. «Ogni donna che abbia mai sentito un uomo storcerle il polso, si ritrova al cospetto di un fatto della natura che induce remissività, come accade per il ciclone con un fragile ramo d’albero», ha osservato in un saggio su Simone de Beauvoir qualche anno fa, un’attestazione della «differenza della donna» allo stesso tempo così esplicita e così oscuratamente oscena da appiccicarsi come bava alla propria capacità di illudersi del contrario.I modi in cui Notti insonni ricorda Tristi tropici non riguardano solo il tono. Il metodo dell’«io» in Notti insonni è infatti quello dell’antropologo, del viaggiatore attento a cogliere il dettaglio rivelatore: ci vengono fornite osservazioni precise sugli sconosciuti incontrati nel corso del viaggio, studi intimi dei loro rituali. La maggior parte di questi studi riguarda le donne. Ci viene mostrata Louisa, un’ospite non voluta, amica di amici, una giovane donna che trascorre le sue giornate in «una noia limpida e blu», e le sue notti a perfezionare il racconto mattutino della sua stessa insonnia, una «diva drammatica della noia», che finalmente si butta nel mondo, indossando pantaloni neri e un cappottino nero di pelle e una sciarpa annodata a mostrare il nome di uno stilista francese, pronta a truccare una prova di stenografia, ottenere un lavoro, inventarsi una vita in cui «avrà un appartamento, un amante, assumerà un po’ di droghe, ascolterà il fonografo, comprerà vestiti, e qualcosa accadrà». Ci viene mostrata Marie, la figlia di un industriale che ha scelto di vivere in povertà, «che parlava di costruire il socialismo con voce svolazzante» e custodiva, nel suo appartamento spartano, una foto di nozze dei suoi genitori in una cornice di argento e ametiste. Ci vengono mostrate insegnanti di musica decadute nella vecchiaia e nella povertà, donne delle pulizie e malattie ostinate, seni mozzati, eruzioni cutanee, reni malandati, mariti con coaguli di sangue e un passato da galeotto. Ci vengono mostrate donne che sopravvivono, e donne che non lo fanno. Ci viene mostrata Billie Holiday nel 1943. Ci vengono mostrate donne fatte di «forza folle, una resistenza ripugnante, ostilità e incubi», donne che vivono fino a vagare «nella loro spaventosa libertà come vecchie mucche abbandonate a loro stesse, completamente sprovviste». «Se solo una persona sapesse cosa ricordare o fingere di ricordare», si cruccia la curatrice di queste memorie all’inizio di Notti insonni.«Prendi una decisione, e tutto ciò che vuoi dalle cose perdute si manifesterà. Puoi recuperarle come una lattina su un ripiano. Forse». Pensi a Pandora, apri quella lattina ed ecco che sciamano fuori Louisa, Marie, Juanita.L’indagine sul campo procede. Le storie meticolosamente trascritte iniziano ad affermare un punto terribile, anche se questo punto non stupirebbe le nostre madri e le nostre nonne. Nella cultura sotto esame, le cose finiscono male. La malattia è reale. La libertà di vivere svincolati dagli altri, per quanto desiderata, è dura per gli uomini e dura per i bambini ed è più dura ancora per le donne. «Come mai non riusciamo a trattenere la nota di ironia, il tintinnio della noncuranza alla distanza?» si chiede la narratrice di questo libro straordinario e posseduto verso la fine delle sue riflessioni. «Frasi in cui ho provato a ottenere un certo tono leggero: molte di loro hanno a che fare con eventi, cambiamenti radicali, distruzioni che mi hanno indotta a piangere come una bambina.» Oh sì.