Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 10 Sabato calendario

Intervista a Elisabeth Åsbrink


Negli Anni 80 Elisabeth Åsbrink, come la maggior parte delle adolescenti svedesi, sognava di assomigliare ad Agneta degli Abba, crescere alta, bionda, con capelli lisci e serici sui quali appoggiare le corone di fiori a Midsommar. Sognava di appartenere, sapeva di appartenere, ma la domanda era sempre: «Da dove vieni?». Qualcosa in lei segnava la diversità. Forse i capelli ricci e scuri? Forse l’eredità intangibile dei genitori, cresciuti a Londra e Budapest? La risposta doveva passare dal concetto di «svedesità», di identità nazionale, di valori individuali e collettivi. Da qui è partito il viaggio della giornalista e scrittrice che in Made in Sweden anatomizza il mito svedese, lo scompone con uno sguardo autoptico e inesorabile – lo stesso del suo precedente lavoro, 1947, dedicato a un anno trascurato e apparentemente insignificante – per poi ricomporlo e rendere più vero il «Paese perfetto» e le parole che lo definiscono."Made in Sweden” è un saggio storico, un’analisi sociale e un racconto personale allo stesso tempo. Qual è il filo che lega tutto?«L’identità. Personale e collettiva. Sono nata da madre inglese e padre ungherese, ma sono stata fatta in Svezia. Loro, però, non si sono mai sentiti a casa: pensavano che il cibo, le abitudini, la tv svedesi fossero strani. Nella casa della mia infanzia, nel sobborgo di Handen a Stoccolma, di valori svedesi se ne parlava costantemente. Per esempio del fatto che in Svezia le persone si offendono se vengono interrotte durante una conversazione, anche se è evidente che interrompere dimostra interesse. E che gli svedesi si aspettano che i loro ospiti, quando vengono in visita, si tolgano le scarpe. Per mia madre e mio padre era incomprensibile essere invitati a cena, vestirsi eleganti e poi passare la serata a piedi scalzi. Io invece mi sono adattata alle usanze del Paese in cui sono nata. Ma ho ereditato da loro questa sensazione di essere strana e straniera».E poi?«Crescendo ho iniziato a conoscere le mie radici, la mia parte ebrea, per esempio, che viveva benissimo con il mio ateismo, per esempio. Dentro di me avevo l’inglesità, l’ungheresità, l’ebraicità, avevo tutte queste cose ed ero anche svedese al cento per cento: avevo tutte le immense possibilità del welfare, la garanzia di poter essere tutto quello che volevo, di essere libera. Allora ho capito che possiedo molteplici identità, e dalla crisi d’identità sono passata all’euforia di identità».Cos’è l’«euforia d’identità»?«Nel momento in cui si inizia ad accettare la moltitudine, cambia la percezione di noi stessi, l’immagine degli altri. Fatalmente anche l’immagine che una Nazione ha di sé. E queste immagini, e le parole che le definiscono, sono ineluttabilmente intrecciate».E la Svezia come vede se stessa?«Definire l’immagine che una nazione ha di sé è sempre un esercizio interessante, soprattutto se si cerca di ridurla a una singola parola o idea. Che parola sarebbe per la Gran Bretagna? “Indipendenza”, forse. E per la Francia potrebbe essere “Orgoglio”? Per l’Italia è più difficile: “Bellezza”? Per la Svezia può esserci solo una parola: “bontà”. Ma cosa succede quando per mantenere l’idea di bontà nazionale, gli svedesi chiudono un occhio sugli elementi più inquietanti della loro storia e della loro identità? Cosa succede quando rifiutano il molteplice e nascondono le ombre che danno fastidio?».Dice che l’immaginario del Paese “buono” è basato su una menzogna?«Menzogna è una parola forte. Certo è che la Svezia ha creato un’immagine di sé più bella di quanto sia in realtà e di quanto meriti veramente. Torniamo alla regola non scritta di togliersi le scarpe quando si entra in casa. Non è una vecchia tradizione derivata dal caro vecchio Paese contadino, pieno di terra e fango, ma l’effetto persistente di una regola imposta dallo Stato. Negli Anni 30 una delle prime conquiste del welfare erano gli alloggi per tutti, pagati con le tasse. Ma lo Stato voleva controllare che gli abitanti li trattassero bene e così mandava ispettori a verificare che le regole di condotta, pulizia e comportamento fossero rispettate. I residenti dovevano aprire le finestre in determinati momenti della giornata, tutti dovevano fare il bagno una volta alla settimana. E dovevano togliersi le scarpe in casa. Una bella tradizione nata dal controllo, insomma. Accettare la moltitudine significa accettare anche le ombre...».Quando è nato il mito della Svezia Paese modello?«La storia della Svezia come Paese buono nasce nel 1943. Prima eravamo xenofobi, anti rifugiati, collaboravamo con Hitler nascosti dal paravento di presunta neutralità, mentre facevamo affari con il Reich. Ma nel 1943 si viene a sapere che gli ebrei danesi sarebbero stati i prossimi a essere deportati. L’anno prima la Svezia aveva assistito al massacro degli ebrei norvegesi, e l’intera nazione ne era rimasta choccata. Allora il governo decise di accogliere ottomila ebrei danesi. Fu allora che nacque la Svezia buona. Ed essere buoni è così soddisfacente... Da lì è storia: mandammo Wallenberg nei territori occupati dai nazisti, poi decine di autobus a raccogliere i sopravvissuti dei campi. La narrazione della Svezia umanitaria era nata».Lei ha rivelato che il fondatore di Ikea, Ingvar Kamprad, era un nazista e che il neutralismo durante la Seconda Guerra mondiale era tutt’altro che “buono”, temi che ritornano anche in “Made in Sweden”.«Gli svedesi, come tutti, amano ricordare solo le cose buone di sé, dunque quella di Ikea diventa una bella storia di successo imprenditoriale, le leggi razziali contro i sami vengono dimenticate, così come le campagne di sterilizzazione forzata di disabili psichici e fisici. Il mio motto – “Conosci te stesso” – è uno dei motivi per cui ho deciso di scrivere questo libro: il tuo passato è fatto anche di oscurità che non puoi decidere di non vedere. Non esiste una persona pura, una famiglia pura, una Nazione pura. Conosci te stesso, conosci il tuo paese, guarda le tue parti oscure, e le tue parti illuminate, perché entrambi sono reali. Tutto il resto è una favola».La superpotenza morale di oggi ha fatto i conti con il suo passato?«C’è indubbiamente un problema con l’immagine che la Svezia ha di sé. Viviamo con un senso di colpa perenne, ma il nostro collaborazionismo è un elefante nella stanza, una cosa di cui nessuno vuole parlare, ma che plasma la politica e le persone: vogliamo essere buoni, volgiamo essere delle brave persone a tutti costi, ma in Svezia non ha avuto luogo alcun esame di coscienza o dibattito morale. Coloro che avevano simpatizzato con Hitler semplicemente hanno continuato la loro vita come se nulla fosse accaduto».Spesso la Svezia è accusata di “arroganza”, soprattutto nella strategia contro la pandemia. Il governo ha da subito puntato sul rapporto di fiducia tra Stato e cittadini, ed è andato avanti per la sua strada...«Una fiducia usata malissimo. La strategia contro la pandemia è diventata come la Brexit nel Regno Unito, ha polarizzato la società tra i sostenitori del governo e gli scettici. La Svezia è sempre stata orgogliosa di essere diversa, orgogliosa di essere stata la prima a vietare ai genitori di schiaffeggiare i propri figli, ad esempio; orgogliosa di Greta che sta là fuori a dire ai leader del mondo come devono comportarsi. In questo caso l’orgoglio di essere diversi, nonostante il numero di morti, è assurdo. Ma criticare la strategia sanitaria è diventato come criticare il concetto stesso di Stato sociale: se sei contrario allora sei di destra perché non ti fidi del governo. In qualche modo la fiducia nello Stato è diventata una fede, qualcosa di perverso e acritico».Scrive che in Svezia ci sono due narrazioni preponderanti: una sull’individuo singolo e forte, l’altra su una forte collettività. In mezzo c’è Zlatan Ibrahimovich. Perché?«All’inizio della sua carriera Zlatan veniva descritto come un ragazzo cocciuto, caparbio e – cosa peggiore di tutte – un pessimo giocatore di squadra, un individualista. Tutti i commenti e gli articoli su di lui si concludevano con quanto lui fosse “poco svedese”. Poi, nel 2014, Zlatan è diventato il protagonista dello spot della Volvo. Nel filmato lo si vede correre nella neve, fare cose estremamente virili in solitudine mentre declama l’inno svedese. Dall’essere non svedese Zlatan Ibrahimovich è arrivato a essere il simbolo della svedesità. Cosa è successo in questi vent’anni? Una cosa è sicura: Zlatan non è cambiato, quindi è il Paese a essere cambiato».Come è cambiato?«Agli inizi degli anni 90, dopo decenni di governi socialdemocratici, i conservatori hanno iniziato a smantellare il welfare State. Prima la riforma delle pensioni, poi l’assicurazione sociale, le scuole e le case diventano private, gli ospedali diventano privati, le farmacie, i taxi, le poste. A metà degli Anni 80 la Svezia era il Paese in cima alla classifica mondiale dell’uguaglianza sociale, oggi il gap economico tra ricchi e poveri è enorme. Ma l’immagine che la Svezia aveva di se stessa non si è adeguata. Adesso da soli si è forti. Per farla breve: la società si è messa in pari con Zlatan Ibrahimovich. Il ritratto dei giornalisti nei primi anni della sua carriera era sbagliato. Lui non era “non-svedese”. Era soltanto svedese prima di tutti gli altri. Questo sviluppo è anche un altro motivo per cui i neonazisti e le destre hanno preso piede: ora il denaro fa la differenza, e accanto al senso di colpa nazionale vive la nostalia, la nostalgia dello “Stato dalla culla alla morte”, dove pagare le tasse ti garantiva di poter diventare qualsiasi cosa volessi». —